I protagonisti della nostra storia.
INTERVISTA A FRANCESCO RENDA
Nato a
Cattolica Erac1ea il18 febbraio 1922, ordinario di storia moderna presso la
facoltà di scienze politiche dell'università di Palermo, consigliere comunale
di Cattolica Eraclea dal 1949 al 1968, deputato dell’Assemblea Regionale
Siciliana dal 1951 al 1967, senatore della Repubblica dal 1968 al 1972.
Palermo, lì
22 ottobre 1992.
Domanda: - All'indomani
della fine della seconda guerra mondiale a Cattolica Eraclea furono aperte le
sezioni di alcuni partiti politici, come nacque il P.C.I.?
Risposta: -
Le origini non sono di carattere ideologico, sono prevalentemente, se non
esclusivamente, sociali, legate alle straordinarie difficoltà provocate dal
conflitto e dai cambiamenti, che quel conflitto aveva indotto e dalle prospettive
che cominciavano a configurarsi nel 1943 in vista della sconfitta dell’asse
Italia-Germania e della vittoria degli eserciti alleati, che significava
vittoria della Russia, con la conseguente prospettiva di un’avanzata su scala
mondiale del comunismo e della causa dei lavoratori. Quest'affermazione non è
un'elaborazione di chi adesso affaccia un'ipotesi storiografica, ma è un dato
empirico. Ricordo un episodio molto significativo: al momento dell'occupazione
anglo-americana della Sicilia, mi trovavo in Puglia, ero militare in aviazione.
Per vari mesi non ci furono più comunicazioni, quindi ci fu anche il timore per
la mia famiglia che io fossi finito in guerra. Quando, invece, nel dicembre del
1943, ebbi una licenza per motivi di famiglia ed arrivai in paese senza nessun
preavvertimento, fu un fatto eclatante, perché praticamente ero considerato un
redivivo che tornava. In quest'occasione ci furono visite di famiglia, come si
usava, e tra le varie visite venne un gruppo di contadini, che io conoscevo,
essendo figlio di contadino, persone con le quali però non avevo avuto mai rapporti
di nessun genere e dopo essersi congratulati dello scampato pericolo, lieti di
rivedermi vivo, mi chiesero di diventare il loro dirigente. Volevano mettersi
in politica e chiedevano a me, studente universitario, di mettermi alla loro
testa. La cosa mi sorprese, francamente nel dicembre del 1943 non avevo nessuna
intenzione, nessuna voglia, nessun proposito di dedicarmi alla politica; semmai
il progetto mio era quello di diventare un filologo o un filosofo, dedicarmi
agli studi. Invece, quest’episodio, in maniera del tutto non progettata, non
consapevole, trovò un suo ulteriore sviluppo ed il19 marzo del 1944, festa di
San Giuseppe, aprimmo un circolo dei lavoratori: comunisti e socialisti con
Aurelio Bentivegna presidente ed io vice-presidente. Cosa fosse il comunismo,
cosa non fosse, francamente l'ignoravamo. Io avevo letto Benedetto Croce ed
altri filosofi, non avevo letto Marx. Le mie conoscenze di dottrina marxista
erano proprio zero.
Questo non va
a mio onore, avrei dovuto conoscerlo, ma non avevo questa formazione. Nasce, in
queste condizioni, il circolo dei lavoratori e in un ambiente come quello di
Cattolica la mia adesione al circolo suscitò scandalo, perché io ero di
famiglia cattolica ed io stesso ero stato fino a qualche anno prima un cattolico
fervente e anche presidente dell'azione cattolica, per cui rappresentavo, credo
di non esagerare dicendo questo, una speranza per il movimento cattolico
locale. Tali reazioni in definitiva erano ingiustificate. L'aspirazione e la
sensibilità ad avvertire la vicenda politica venivano scambiate per comunismo.
Dopo il circolo dei lavoratori (non fu possibile stare assieme con Aurelio
Bentivegna), il 24 maggio del 1944, aprimmo in via Regina Margherita, in una
stanzetta a pianterreno, la sezione comunista, che fu inaugurata senza
l'intervento di nessuno. Non informammo neppure la federazione provinciale, non
invitammo neppure quelli di Ribera che su quel terreno erano molto più avanti.
Ci siamo riuniti ed abbiamo inaugurato la sezione, il discorso lo tenni io. In
quell’occasione, non potevo parlare del comunismo che non conoscevo, parlai
della Costituzione Sovietica. Avevo trovato, durante il viaggio da Bari a
Palermo, un testo di quella Costituzione in una bancarella. Sembrava un testo
meraviglioso e veritiero, in realtà poi questa Costituzione era falsa, cioè non
era stata mai applicata. Noi non lo sapevamo, quindi ne commentai gli articoli
più significativi. Questo fu tuttavia un episodio puramente occasionale, perché
in realtà ciò che tormentava, ciò che premeva era un’esigenza sociale profonda,
importante.
Domanda - Ricorda
qualche episodio particolare della sua esperienza sindacale, dopo che era stata
fondata la sezione comunista?
Risposta:-
Qualche settimana dopo avvenne un fatto, che racconto perché ha un valore
emblematico. Durante la guerra c'era il contingentamento della produzione
granaria: per obbligo di legge bisognava conferire agli ammassi, e poi ai
granai del popolo, il grano che si produceva. Naturalmente, insieme
all'obbligo, per il contadino c'era anche la tendenza al mercato nero, che era
esercitato dai grandi proprietari, che realizzavano grossi profitti, ma anche
dai contadini, per quel poco che potevano fare ed era in loro potere, per
arrotondare le entrate, perché diversamente sarebbero morti di fame. In questo
senso il mercato nero costituì per molti una valvola di sicurezza. Nel giugno
'44 uscì un decreto del ministro dell'agricoltura, Fausto Gullo comunista, con
cui si poneva come obbligo il conferimento oltre che del grano, anche dell’orzo
e di altri prodotti analoghi. Questo provvedimento suscitò un enorme scalpore,
perché implicava nessuna trattenuta per il bestiame, mentre l'orzo, praticamente,
era utilizzato come alimentazione dei muli e degli asini. Quindi grande
allarme. Senza che nessuno mi avesse detto cosa fare e come fare in queste
circostanze, subito presi l'iniziativa, radunai dei contadini, organizzammo
anche un comizio per dire: presentiamo subito un esposto per far revocare
questo decreto, perché decreto ingiusto. Mentre era in corso questa agitazione,
arrivò la notizia, che il ministro Gullo era in Sicilia e che andava ad
Agrigento.
Allora
costituimmo una delegazione ed andammo dal ministro, esponemmo la questione. Il
ministro, oltre ad accoglierci nel modo più affabile possibile, informatosi
della cosa, assunse l'impegno di modificare il decreto e, tornato a Roma, lo
modificò. Successivamente venne un altro decreto Sullo, che fu sulla riduzione
dei canoni d'affitto. Questo altro episodio lo racconto perché mise in luce un
elemento di politica agraria, che dava alla nostra azione sindacale e politica
una originalità che non c'era esattamente nella politica comunista. Con questo
decreto sugli affitti fu stabilito che il prezzo del grano, portato ai granai
del popolo, fosse di mille lire al quintale, distinto: cinquecento lire come
prezzo e cinquecento lire come premio di produzione. Fu qui l'inventiva del
giovane dirigente politico: i canoni d'affitto si pagavano in denaro, riferito
al prezzo del grano; quindi al proprietario o gabelloto concedente l'affittuario doveva pagare mille lire o
cinquecento lire? Io, sottile studente universitario, utilizzando l'arma
semplicemente del buon senso, poiché non avevo nessuna esperienza sindacale,
dissi: il prezzo ufficiale del grano è cinquecento lire, il premio di
produzione spetta a chi produce il grano, non a chi riceve il canone. Su questo
mi sono scontrato con la camera del lavoro di Agrigento, la quale non era
d'accordo, perché riteneva che per potere beneficiare di tale distinzione il
contadino doveva conferire il grano all’ammasso e poi dal pagamento di questo
grano ammassato cinquecento lire spettavano a lui e cinquecento lire al
padrone. Io dissi che questo era un altro discorso. Se il contadino deve
pagare, che paghi il prezzo del grano e non rinunci al premio di produzione.
Oltre il conflitto all'interno del sindacato, naturalmente ci fu il contrasto
con i proprietari terrieri. Io diedi la parola d'ordine di pagare solo il
prezzo del grano, escluso il premio di produzione. La cosa un po' singolare fu
che ebbi ragione io. Ebbi ragione in sede giudiziaria. Io non feci causa a
nessuno, la causa la fecero i padroni, ma la magistratura, quando si trovò di
fronte alla questione controversa, mi diede ragione. Quindi, come lei vede, il
comunismo di Cattolica nasceva come comunismo prevalentemente contadino e
rurale, profondamente ancorato ad un problema di liberazione della classe
contadina, che era stata sempre classe oppressa, sfruttata, tenuta in
condizioni di grande soggezione, di grande miseria e che nella prospettiva del
comunismo vedeva la prospettiva di una sua liberazione.
Domanda: - È questa
allora la motivazione principale dell'adesione dei contadini al Partito
Comunista Italiano?
Risposta: -
Certo. Praticamente, c'era un'altra distinzione importante che tengo a
sottolineare. In questa impostazione, che io le ho raccontato, protagonisti
della battaglia contadina non erano i braccianti agricoli, erano i contadini
coltivatori, il che già era una contraddizione, rispetto alla politica
comunista, perché per la politica comunista i privilegiati dovevano essere i
braccianti, i proletari. Invece a Cattolica i braccianti nel 1944 non avevano
che rivendicare, erano disoccupati, e comunque aspiravano ad avere un pezzo di
terra, non volevano altro che diventare contadini anche loro. E quindi fu un
movimento contadino-comunista, che aveva la sua base sociale prevalentemente
tra i mezzadri, gli affittuari e anche tra i braccianti, per i quali si aprì la
prospettiva della lotta per le terre incolte. Dopo di che, evidentemente su
questa base, il movimento poté svilupparsi con un’apertura, con un impeto
anche, che ebbe dello straordinario e che poi si completò nella costituzione
della cooperativa La Proletaria, che fu costituita proprio con l'obiettivo di portare avanti la lotta
per le terre incolte, seguite da occupazioni etc.
Domanda: - Durante
l'occupazione dei feudi, si sono incontrate resistenze? Ci sono stati
incidenti?
Risposta: -
Premetto che io non abitavo a Cattolica, venivo di volta in volta, quando era
necessario, quando c'era l'occasione
per venire. Per altro non ero un funzionario comunista, ero
semplicemente un attivista. Funzionario lo divenni nel 1948. L'occupazione
delle terre incolte fu un fenomeno in cui si ebbe la percezione evidente che la
vecchia società non teneva più. Il fatto che il contadino andasse ad occupare
la terra significava la liberazione dallo stato di soggezione. Significava,
infatti, rompere col proprietario, rompere con le autorità, rompere col prete e
poi anche con la mafia, perché la mafia allora era impegnata nel feudo in prima
persona, dato che in ogni feudo c'era un campi ere, che tutelava gli interessi
degli agrari. L'occupazione ebbe un carattere di massa travolgente, non erano
gruppi di disperati che si muovevano. Quando si decideva di fare
un'occupazione, era tutto il paese che partecipava, cioè tutto il popolo
contadino partecipava, senza distinzione. Non erano solo i comunisti o i
socialisti, ma tutto il mondo contadino, tanto che la Democrazia Cristiana, che
agli inizi non era disponibile, fu alla fine costretta, venne travolta, dovette
prendere anche lei l'iniziativa, e così in varie occupazioni, insieme a noi,
c'erano anche i democristiani. Comunque le occupazioni erano fenomeni
travolgenti e quindi, proprio perché erano travolgenti, non davano possibilità
ad incidenti, perché quando in un feudo si presentavano mille, mille e
cinquecento persone, naturalmente non erano suscettibili di venire aggredite,
perché se lo fossero state, ovviamente avrebbero reagito. Poi c'era anche un
grande spirito di disciplina, cioè non erano movimenti jacquerie. Anzi
le voglio raccontare un altro episodio di valore anch'esso emblematico. Credo
fosse il 1947. Fu una giornata di occupazioni. La mattina si partì in direzione
di San Giorgio verso Agrigento, poi, mentre eravamo in quel fondo, arrivò la
notizia che la commissione, che concedeva le terre incolte, si trovava in
contrada Monte di Sara e allora si fece dietro front (quando dico San Giorgio
intendo il lato opposto del territorio del paese rispetto a Monte di Sara).
Arriviamo nel pomeriggio a Monte di Sara. Non le dico la giornata di caldo!
Eravamo in settembre, prima arrivano i contadini a cavallo, che circondano la
commissione, costituita dai rappresentanti dei proprietari, dai rappresentanti
dei contadini e dal giudice. Quindi, arrivo io con qualche ritardo.
Domanda: - Era una commissione a livello
provinciale?
Risposta: - Circondariale, veniva dal tribunale di Sciacca. Quando
arrivo io, trovo questa gente che gridava e chiedeva che immediatamente la
commissione decidesse lì sul posto la concessione delle terre. Il che non era
possibile e se anche l'avesse fatto, sarebbe stata una cosa nulla. Ben presto
mi accorgo che la situazione diventa preoccupante, perché una folla di quelle
dimensioni, dopo un giorno di cavalcata al sole, era esacerbata e bastava che
ci fosse un qualsiasi incidente per provocare qualche guaio. Erano presenti
Giuseppe Spagnolo e Giuseppe Petralia, il quale era sindaco del paese e
dirigente del P.S.I. . Pregai Petralia d'invitare i contadini a sciogliersi, ma
nessuno lo ascoltò. Allora pregai Spagnolo, perché lui era contadino e aveva
l'autorità per farlo, ma anche lui non fu ascoltato. Era lì che gridava con
quelli della commissione tutti impauriti, giustamente impauriti. Francamente
non mi sarei voluto trovare in quelle condizioni. Alla fine intervengo a mia
volta, cercando di convincere coloro che non ne volevano sapere. Ricordo che
feci qualche tentativo di forza, ma quella gente mi teneva le mani (non mi
maltrattava) e non si allontanava. Ad un certo punto io dissi: qui non
controllo più nulla, che ci sto a fare?, me ne vado. E poiché avevo a
disposizione una giumenta, monto sulla giumenta, piglio la bandiera e mi
allontano. I contadini che non avevano voluto ascoltare nessuno, vedendo
allontanare il loro capo, come tante pecorelle dietro la bandiera se ne sono
tornati in paese e credo che si sia evitato un possibile incidente. Questo per
dirle come andavano le cose. Vi era una spontaneità di partecipazione, una
speranza vera, una prospettiva nella quale si credeva profondamente e questo
dava unità al movimento. Evidentemente questo richiedeva che ci fosse una
direzione abbastanza duttile, abbastanza articolata, perché una direzione,
diciamo, di basso profilo poteva rischiare di essere travolta dalla
spontaneità.
Domanda: - Nel dicembre del 1947 il
movimento contadino, in una manifestazione di protesta, diede l'assalto al palazzo
del marchese Borsellino, com’è successo?
Risposta: - In quell’occasione io non ero
presente, però posso dirle che cosa è successo. Nel dicembre del 1947 ci fu un’esplosione ribellistica in
tutta la Sicilia.
Domanda: - Si trattò di un fenomeno a
carattere regionale?
Risposta: -
Sì, ricordo che a Canicattì ci fu una sparatoria, ci furono morti, in tanti
paesi accaddero incidenti molto più gravi di quello che successe a Cattolica,
dove in definitiva si verificarono degli episodi non mortali. In effetti, si
bruciarono delle suppellettili, in tante altre parti ci furono scontri con la
polizia e con le parti avverse, insomma fu un dramma. Da cosa fu determinata
questa situazione? Nel maggio precedente era avvenuta la rottura del patto
d’unità nazionale. Comunisti e socialisti erano stati cacciati via dal governo
e quindi da forza di governo erano diventati forza d’opposizione ed anche
d’opposizione perseguitata. Cosicché vennero messe in discussione tutte le
conquiste che precedentemente c'erano state e naturalmente l'opposizione non
era disposta a piegarsi e a cedere. Quindi, fu dichiarato uno sciopero generale
in tutta la Sicilia, che aveva come obiettivo l'imponibile di manodopera ed
alcune altre rivendicazioni. L'imponibile di manodopera era il tema centrale,
però c'era una grande esasperazione delle masse, tra l'altro si era alla
vigilia del 1948. Durante le manifestazioni di questo sciopero, svoltosi in
clima di grandissima tensione, di grandissima divisione, vi furono anche
manifestazioni di estremismo, in simili circostanze le tendenze estremiste
finiscono con l'avere il sopravvento, perché evidentemente un conto è fare la
manifestazione e rivendicare la propria ragione, altro conto prendere d'assalto
il circolo dei civili, il palazzo del marchese o del comune. Ma fu un fatto di
carattere generale, che poi si ritorse in danno per il movimento, perché queste
cose allontanano le persone, che ti guardano con simpatia, e si concludono con
le repressioni. Ci furono, infatti, degli arresti e alcuni compagni furono
anche duramente colpiti con tutta una serie di conseguenze.
Domanda: - Agli
inizi degli anni cinquanta il movimento contadino, così forte negli anni
precedenti, a quanto pare, ha perduto gran parte della propria forza. Per quale
motivo? A causa dell’emigrazione?
Risposta: -
L'emigrazione è un elemento, non è tutta la spiegazione. Questa è una pagina
della storia nazionale, non della sola storia di Cattolica e rappresenta un
dato costitutivo della lotta sociale di quel periodo.
In definitiva
noi abbiamo avuto una situazione di questo genere. Tra il 1944 e il 1950 la
lotta si era incentrata sulla parola d'ordine: riforma agraria, ma in realtà
sull’occupazione delle terre e la loro concessione alle cooperative. Quindi,
una massa considerevole di contadini, non solo comunisti e socialisti anche
democristiani e di altre forze, aveva avuto la possibilità di accedere alla
terra. Probabilmente in una situazione diversa, si sarebbe dovuto consolidare
tale conquista, perché rappresentava un fatto che modificava la situazione in
maniera definitiva. A vere il pezzo di terra, sia pure come concessione temporanea,
coltivarlo, già questo era un fatto importante. Però, c'era la richiesta della
riforma agraria, che implicava che si facesse la legge, che si mettesse tutta
assieme in un cumulo la terra espropriata, che poi andava sorteggiata e divisa.
Ma qui entrò in conflitto la diversa posizione dei partiti politici. Il
Partito. Comunista e il Partito Socialista in fondo avevano di mira il
bracciante agricolo. Poi questa parola d'ordine: riforma agraria aveva una
valenza di trasformazione profonda della società, una valenza rivoluzionaria,
non rivoluzionaria nel senso di cambiare potere, ma nel senso di cambiare nel
profondo la società. La Democrazia Cristiana tendeva invece a privilegiare la
formazione della piccola proprietà contadina, per cui già fin dal 1948 vennero
le leggi per concretizzarla. Nel 1950-52, non so a Cattolica, parlo in
generale, il feudo fu distrutto, perché passarono di mano qualcosa come
cinquecentomila ettari di terreno, di cui con la legge di riforma agraria poco
più di ottantamila ettari, con la legge sulla formazione della piccola
proprietà contadina circa centocinquantamila ettari e il resto con la legge del
mercato, che fu quello che sconvolse tutto. A questo punto si sarebbe dovuto
cambiare l'orientamento della politica agraria.
L'obiettivo non poteva essere più la conquista della terra, avrebbe
dovuto essere il consolidamento della
terra conquistata e, quindi, il P.C.I. e il P.S.I. si sarebbero dovuti
trasformare da partiti proletari in partiti proprietari, il che era in
contraddizione con la loro natura. I due partiti si trovarono di fronte ad una
realtà che non era connaturata con la loro formazione, diciamo, costituzionale.
Cosicché la situazione imponeva di avviare una nuova politica e invece questo
non si riuscì a fare. Si tentò di farlo, ma il quadro generale non lo
consentiva. Se questo si fosse fatto, probabilmente parte dei contadini, che
avevano avuto la terra, attraverso la riforma agraria in Sicilia e in tutta
l'Italia, avrebbero consolidato questo loro rapporto. Invece la situazione non
ebbe questo tipo di svolta. Perciò la riforma agraria ebbe come risultato che
cambiò le cose, ma non si risolse a vantaggio di nessuna forza politica, meno
che per la Democrazia Cristiana, che fu l'unica che vinse realmente questa
battaglia.
Domanda: - La
D.C. riuscì in questo modo
a conquistarsi il
consenso dei contadini? Risposta:
- Allargò la sua base sociale. A questo punto, per altro, la gente, non avendo
più la prospettiva di conquistare la terra, cosa doveva fare? Poteva restare in
paese? La rottura del latifondo, poi, richiedeva che la terra venisse coltivata
in modo di verso e l'emigrazione diventava, diciamo, una via d'uscita del tutto
naturale, fisiologica. Anche qui la Sinistra si attardò eccessivamente nel
valutare il fenomeno in una maniera che non corrispondeva alla realtà, perché è
ovvio che il lavoratore non poteva stare affamato in paese, aspettando che
venisse la rivoluzione. La Sinistra invece riteneva che il bracciante, il
contadino, l'operaio che andasse via costituiva un venir meno di una forza, che
poteva essere utilizzata per le lotte sociali. L'emigrazione fu un fatto
indicativo dell'Italia che cambiava. Uno dei grandi fenomeni di trasformazione
della società italiana, tenuto conto che da tutto il Mezzogiorno si
trasferirono nel Nord alcuni milioni di persone. Dalla Sicilia semplicemente
andarono via un milione di persone. La valutazione da dare? Questi sono grandi
fenomeni, che non possiamo giudicare da un punto di vista solo locale.
Domanda: - In
questo periodo a Cattolica si nota
una certa crisi in tutti i partiti,
i giovani specialmente non si avvicinano
a essi, perché non credono negli ideali di un tempo. La domanda è questa: la
crisi dei partiti attuali corrisponde alla crisi degli ideali?
Risposta: -
Questo è un tema di carattere generale. Le vicende che io le ho raccontato
hanno avuto il maggiore impulso tra il 1944 e il 1955. Dopo il 1955 abbiamo un
allentamento della tensione sociale, avviene anche una perdita di prospettive,
una crisi della strategia politica dei partiti. Sia il P.D.S. che il P.S.I.,
sia la stessa D.C., adesso dovrebbero elaborare una nuova politica e la
politica che elaborano è piuttosto stentata, priva comunque di afflato, priva
di quella capacità di mobilitazione che aveva la politica nella fase
precedente. Quindi c'è un processo di deperimento, che indebolisce in modo
particolare il Partito Democratico della Sinistra ed è un deperimento grave. È
un deperimento politico? È Ideale? È un deperimento sociale? Io dico che sono
tutti e tre messi assieme. Le ho detto che la ragione della nascita del Partito
Comunista a Cattolica era sociale, ma questa ragione sociale via via si è
chiarita meglio. Ricordo che già alla fine degli anni sessanta c'era questo
deperimento, ricordo che avevo fatto centinaia e centinaia di comizi molto
affollati, molto vissuti, molto coinvolgenti, ma nel 1965-66, negli ultimi
comizi che feci, io stesso mi trovai nella difficoltà di parlare con la gente,
perché la gente veniva ad ascoltare i comizi, però le cose che si dicevano
erano ripetitive.
Domanda: - È
per lo stesso motivo che oggi, specialmente i giovani, disertano i comizi?
Risposta. -
Oggi c'è anche una ragione diversa. Allora c'era già questo deperimento, che
toccava in modo particolare i partiti di sinistra, ma anche la D.C., specie con
riferimento alle lotte amministrative locali, che spesso finivano con l'essere
lotte di potere, lotte di persone, alle volte anche lotte clientelari etc. . La
crisi di cui lei parla oggi ha una motivazione più di carattere generale. Nel
1989 col crollo del muro di Berlino è avvenuto un fatto imprevisto ed
imprevedibile. Quella che sembrava l'ipotesi naturale, cioè che il mondo si
sarebbe retto ancora per chissà quanto tempo sul bipolarismo, i due schieramenti
che si fronteggiavano l'un con l'altro, magari attenuando la tensione, trovando
forme di convivenza, venne meno. Con la caduta del muro di Berlino, si rompono
gli equilibri, si arriva alla fine dell'Unione Sovietica, alla fine del Partito
Comunista, alla fine dei regimi comunisti dell'Est, cioè ad un cambiamento
totale. Che interpretazione dare di tutto ciò? In prima istanza, esso ha
significato la fine di un periodo storico importante, aperto dalla seconda
guerra mondiale, ma io potrei aggiungere aperto anche dalla Rivoluzione del
1917. Finito il periodo storico, tutte le forze politiche e sociali che erano
state protagoniste di quella vicenda, hanno finito il loro compito. In conseguenza,
crollato il regime comunista, non c'è stata la vittoria del fronte opposto,
perché il fronte opposto si era affermato in funzione della lotta al regime
comunista scomparso. Per comprendere l'accaduto lei immagini una casa che si
regge su due pilastri contrapposti, tolto un pilastro crolla l'edificio. Finita
un'epoca storica, adesso noi siamo alla ricerca di una nuova strada che ancora
non si vede. Lei nota che il travaglio è generale, la cosa più evidente è la
parte economica, la crisi finanziaria, la borsa, la moneta etc, però vi è anche
una crisi ideale. Non che siano entrati in crisi gli ideali o che non
abbiano più efficacia gli ideali. Un'umanità senza ideali, non sarebbe più
umanità. Noi abbiamo adesso una ricerca affannosa, che durerà purtroppo a
lungo, per trovare una nuova sistemazione, cioè nuove prospettive, nuovi
progetti e nuovi programmi. E quindi la crisi non è solo a Cattolica, magari
fosse solo a Cattolica! La crisi è in tutto il mondo, ed è gravissima la crisi
italiana. Lei vede che attualmente si discute financo della stessa unità
nazionale. Quindi in questa situazione è evidente che c'è un grande disorienta
mento, cioè non c'è più nessuna capacità di aggregazione. Per esempio a
Cattolica oggi nessuno può assolvere a quel ruolo, svolto negli anni del
dopoguerra da persone come me. Non è che si trattava di una capacità personale.
Vi era un mondo che doveva venir fuori e che aveva bisogno di crearsi dei
dirigenti e se li creava. A Cattolica hanno trovato l'intellettuale, in altri
paesi hanno trovato il contadino, l'operaio, l'artigiano, l'impiegato.
Domanda: - È importante
conoscere le "nostre radici"? le vicende umane dei nostri
progenitori?
Risposta: -
L'uomo crea la storia. L'uomo è creatore e consumatore di storia. Cioè noi,
operando, anche inconsapevolmente, produciamo storia. La riflessione sulle
cose fatte, la memoria delle cose fatte, è una caratteristica del genere umano.
L'uomo ha la memoria, quindi l'uomo ricorda il suo passato e respira questo
passato come respira l'ossigeno dell’aria. Senza la respirazione, senza
l'ossigeno, l'uomo non potrebbe vivere, ma l'uomo non vive neppure senza la
riflessione storica. Qualunque cosa noi facciamo evidentemente si nutre di una
riflessione storica. La conoscenza storica non è un fattore letterario. Il
fatto letterario è una conoscenza storica evoluta, una conoscenza storica
sofisticata, diciamo specialistica, di cultura raffinata, ma anche il più
ignorante degli uomini, anche il più miserevole degli esseri umani ha un suo
patrimonio di memoria storica. Ognuno di noi è un bacino di conoscenza. Questo
bacino di conoscenza può essere più o meno profondo e certamente nella persona
che non coltiva quella conoscenza il bacino è necessariamente limitato.
Nell'analfabeta, nell’incolto il bacino di conoscenza storica è limitato alla
sua esperienza personale, all’esperienza di famiglia e si potrebbe allargare a
quella del quartiere in cui vive. Il bacino di conoscenza della persona colta
si allarga, comprende non solo la propria esperienza personale, non solo
l'esperienza della propria famiglia e non solo l'esperienza del paese, ma anche
della nazione e del mondo. Quindi tanto più ampia è la conoscenza storica e
tanto più larga e più espansiva diventa la capacità d'intervento. Conoscere le
proprie radici che significa? Noi le radici le abbiamo in noi stessi,
conoscerle, quindi, significa conoscere se stessi. Il passato non è tramontato
per sempre, per cui tu puoi anche non tenerne conto, il passato è vivo nel
presente, è la struttura costituiva del presente. Il più grande documento
storico di tutto il passato è il mondo nel quale viviamo. Il documento della
storia di Cattolica è la situazione di Cattolica così come lei la vive, poi ci
vuole naturalmente una capacità di riflessione e di esperienza anche teorica,
per recepire questi dati della testimonianza. La conoscenza delle proprie
radici, quindi, è una conoscenza di se stessi. La storia non è maestra di vita,
perché la storia non insegna nulla. La storia è la conoscenza del mondo in cui
ognuno di noi agisce, è la conoscenza dei limiti che questo mondo pone, la
conoscenza delle possibilità, ma poi ogni scelta che ognuno di noi compie è una
scelta libera e quindi c'è una responsabilità. E allora la conoscenza storica
delle radici, la conoscenza storica del passato è una conoscenza che aiuta ad
operare e a vivere in maniera più ampia, più consapevole. Le radici, quali
radici? Ecco il punto. Le radici non sono univoche. Le radici dell'uomo
primitivo sono radici della famiglia, del clan. Quelle dell'uomo civile sono le
radici della famiglia, del clan, del paese, ma anche le radici della nazione e
del mondo. E allora le proprie radici non sono soltanto le origini di
Cattolica, le proprie radici sono anche la cultura, la religione, l'ideale di
vita cui ci si richiama. Quindi questo concetto delle radici è un concetto, che
tanto più si approfondisce quello che io chiamo il bacino delle conoscenze,
tanto più diventano profonde, radicate e difficili da conoscere.
Domanda: - Quali
sono i ricordi più belli e i meno piacevoli legati a Cattolica?
Risposta: -
Ognuno si forma nei primi dieci quindici anni, ora io in questo periodo son
vissuto a Cattolica, quindi la mia formazione di fondo si è realizzata in
questo paese, con tutte le problematiche che questa cosa comporta. Per me
questi primi quindici anni non sono stati un periodo, diciamo così, facile,
perché ero di famiglia contadina e quindi avevo davanti la prospettiva di
diventare o un contadino o un artigiano. In effetti, in quella direzione ero
stato orientato, ma in me c'è stata una prepotente esigenza di studio. Ricordo
che prima di mettermi a studiare in senso professionale, avevo letto tutti i
libri della biblioteca del circolo dell'azione cattolica, tutto quello che era
possibile leggere in quel periodo. Per me la lettura era una ragione di vita ed
era l'unica forma di realizzazione di me stesso. Debbo confermare che la sola
cosa che so fare è quella di dedicarmi allo studio, anche adesso il mio modo di
vivere si realizza nello studio. La politica per me è stata un'avventura che è
durata venti anni e più, ma la mia vera vocazione era e rimane quella dello
studio. In politica ho fatto il mio dovere, non mi sono sottratto, ma era un
dovere che io sentivo di dover fare come tributo alla società, non come luogo
dove realizzare la mia identità. A un certo punto me ne sono allontanato,
perché mi son detto se deve diventare un mestiere, mestiere per mestiere,
scelgo di fare il professore universitario e non il politico di professione.
Quindi, per me, ecco Cattolica è la mia esistenza. Purtroppo con Cattolica non
ho un rapporto di dimestichezza, perché manco ormai da cinquant'anni, poi nel
periodo in cui io venivo spesso, venivo più come dirigente, che portava una
direttiva, che non come uno che venisse a vivere in paese. Io non ho trascorso
mai un periodo di ferie a Cattolica, conosco centinaia di persone e sono
conosciuto da altrettante centinaia di persone, ma non ho con nessuno rapporti
di tipo personale, anche se ottimi e a volta amichevoli; i miei rapporti sono
stati sempre rapporti di carattere politico. Finita la motivazione politica non
c'è stata più occasione di continuarli e coltivarli. Però il mio essere è Cattolica e in questo mio essere
c'è il ricordo bello e
brutto. Insomma, io non ho episodi particolari da indicare come belli o brutti.
La vita di ognuno di noi è fatta di soddisfazioni, di dispiaceri, ma comunque
tutto nell’ordine della normalità.
Domanda: - Quali
sono i luoghi del paese natio, conosciuti in gioventù e rimasti impressi?
Risposta: -
Come luoghi, già a dieci anni, io conoscevo tutto il territorio di Cattolica
nello spazio di cinque sei chilometri, perché la mia educazione si è realizzata
nella strada. Conoscevo contrade come l'Aquileia, Monte Sorcio, Monte di Sara,
Collerotondo. Questi luoghi li ho rivisitati durante i periodi di studio,
perché spesso andavo a studiare in campagna. Ciò che non ricordo con piacere è
l'esperienza del lavoro contadino, che sono stato costretto a fare per
necessità di famiglia, non per altro. Ma non lo sapevo fare e sarei stato un
infelice, se non avessi studiato. Quindi in questo senso posso considerarmi un
fortunato, perché ho potuto realizzare questa mia condizione d’intellettuale,
che ha avuto un certo successo. Sono quello che sono, però nella mia esperienza
di uomo, di cittadino e di studioso Cattolica ha un valore fondamentale. Per
esempio, sono una persona che non pecca mai di estremismi, di fanatismi o di
altro, perché sono di formazione cattolica, di formazione liberal-sociale e di
formazione marxista. In me c'è una specie di sincretismo che mi consente di
guardare a tutte le varie tendenze con una certa serenità. Ognuna di queste
culture costituisce parte di me stesso. La mia stessa esperienza politica, in
parte legata a Cattolica, è stata un’esperienza importante, anche se è stata
un’avventura (nel senso che io non avevo scelto di fare politica, poiché la
mia aspirazione era quella di fare il professore universitario senza pensare
ad altro). La circostanza, che mi allontanò dall'università, fu la tensione sociale
che si determinò alla fine del 1947. In quell'anno si ebbe la rottura
dell'unità nazionale e allora la Sinistra fu sottoposta ad una reazione
violenta, compresa la repressione mafiosa, che si concretizzò con l'uccisione
di numerosi rappresentanti sindacali. La cosa che poi m’indusse ad abbandonare
l'università fu l'assassinio di Accursio Miraglia. Mi convinsi che si era alla
vigilia di una guerra civile, quindi lasciai tutto e mi dedicai alla politica.
Temporaneamente mi dissi, fino alle elezioni di aprile, poi invece mi trovai
come oratore ufficiale della festa del 10 maggio a Portella della Ginestra.
(Doveva essere l'ultimo comizio della mia presenza in politica), dopodiché,
decisi di rinviare fino alle prossime elezioni del 1948. Nel quarantotto ci fu
la sconfitta e allora la mia scelta fu fatta. La questione che si pose fu
questa: i dirigenti del partito mi fecero chiamare e mi chiesero di diventare
funzionario, cioè uno che a tempo pieno fa il mestiere del politico. Io
credetti di non potermi sottrarre e debbo dire che il mio professore Vito Fazio
Almayer, col quale mi ero laureato divenendone poi assistente, mi disse che
commettevo un errore, perché potevo benissimo fare politica e restare
all'università. Ma io ritenni che sarebbe stata una vigliaccheria non accettare
l'incarico del partito. Ritirarsi dopo il18 aprile 1948 sarebbe stato un atto
di viltà ed io non ho voluto essere un vile. Né sono pentito. Ho avuto la
fortuna di non pagare alti prezzi, perché tanti, decine di migliaia di persone,
pagarono prezzi e prezzi altissimi. Per fortuna mia invece questi prezzi li ho
pagati solo in parte, ma, voglio dirlo, senza nessun rimpianto. Orbene
Cattolica Eraclea, da questo punto di vista, ha consentito di dare alla mia
vita politica quel carattere di confidenza, che più mi gratificava. Quando ero
in politica conoscevo migliaia di persone, avevo numerosissimi rapporti di
amicizia, ma sempre di carattere non familiaristicoclientelare. Però a
Cattolica si realizzava il fatto esemplare che il figlio del contadino era
vissuto da una generale estimazione ed io vivevo gli odori e i sapori di
quella generale estimazione. Questo è il punto fondamentale: io non ho avuto in
politica mai interessi personali da difendere o ambizioni personali da
soddisfare, tutto quello che ho fatto, l'ho fatto nel senso che lo ritenevo un
dovere, come pure nel senso che compivo un utile pubblico esercizio.
Quando mi è
parso, alla fine, che avrei dovuto fare il mestiere del politico o del
politicante, ho ritenuto di avere esaurito la mia parte ed era meglio che mi
costruissi un’altra carriera. Quello che c'è di singolare è che ciò che ho
creduto di dover fare mi è stato consentito. Di solito è il professore
universitario che passa alla politica, e non viceversa. Non è comune d'altra
parte che per venti e più anni si rimanga in politica e poi si trovi la strada
aperta per entrare a pieno titolo nella vita universitaria. Credo che in Italia
nella mia condizione ci siano state non più di una decina di persone. In questo
Cattolica è la mia vita.