LA COLLINA DELLA GIUDECCA




LA COLLINA DELLA GIUDECCA


Il sito della Giudecca merita una dettagliata descrizione per l’importanza che ha rivestito nella fondazione del Comune di Cattolica. La collina si eleva sopra il livello del mare 322 metri. Sorge sulla riva sinistra del Platani nel punto in cui il fiume s’incontra con il torrente Jazzo Vecchio (un tempo chiamato Acragante). Essa rappresentava il crocevia per chi da Sciacca voleva raggiungere Sutera. Una vecchia strada poderale, in parte ancora esistente, partiva da Sciacca, passando per la contrada Montesara, territorio di Ribera, giungeva nel feudo di Monforte o Platani (contrada Judeca) e a Platano si biforcava. Una bretella attraversava il feudo Salacio e la contrada Giardina (Giardat?) e giungeva a Sant’Angelo Muxaro (Minsciar o Mushar) e proseguiva fino a Sutera (Sotir). L’altra, lunga 20 miglia, attraversava il feudo Qattà, passava per Cathal e giungeva a Girgenti. Partendo da Platano, chi voleva raggiungere una delle predette località, necessariamente doveva percorrere la strada anzidetta.
Oggi si può raggiungere la collina della Giudecca da due punti diversi: Partendo dalla contrada Fornazzo e costeggiando il fiume Platani, oppure percorrendo la strada che da Cattolica porta in contrada Alvano prima e successivamente in contrada Judeca. Percorrendo quest’ultima, ho avuto il piacere di accompagnare l’archeologo Ferdinando Maurici in un’escursione sul monte della Giudecca. Il predetto studioso in un suo articolo così descrive la località visitata:

Monte della Giudecca è una località archeologica nota fin dal secolo passato. L’altura si erge su una larga ansa del fiume Platani e, sebbene di altezza modestissima (322 m.), ben si presta ad un insediamento fortemente condizionato da esigenze di sicurezza. Il monte è, infatti, un vero e proprio bastione naturale, protetto da ripide pareti ed accessibile solo attraverso un varco sul fianco orientale e, con grandi difficoltà, da uno stretto canalone a NE. La sommità è costituita da un vastissimo piano inclinato degradante con una leggera pendenza verso N-NO. Questa superficie era in grado di offrire spazio ad un insediamento di grandi dimensioni. Attualmente l’area è utilizzata saltuariamente per pascolo. Più spesso come testimoniano numerose buche nel terreno, la località è stata visitata da scavatori clandestini.
L’accesso principale, quello sul versante orientale del monte, appare difeso da un muro che corre per ca. 250 m. in direzione SE-NO, dal ciglio della parete a picco ad un brusco rialzamento del pendio. La terrazza più elevata del monte (le sue dimensioni sono di circa 80 metri in senso SO-NE e 40 in direzione SE-NO) è protetta da una cinta muraria con almeno due torri che corre sui lati O e N. Il versante SE è già sufficientemente protetto dallo strapiombo. La cinta, piuttosto rovinata, sembra del tipo ad aggere ed è costituita da un paramento di pietre locali appena sbozzate e da qualche blocco squadrato di pietra tufacea. Altri blocchi squadrati di tufo si ritrovano inoltre qui e lì, sparsi per tutto il sito. Sul vertice della terrazza sommitale esistono i resti di una costruzione, forse una torre. Tutto il vasto pianoro che si estende a N e O della terrazza appare punteggiato da frammenti di ceramica e tegolame. Le tegole appartengono ad almeno due tipi: coppi ad impasto poroso dovuto alla presenza di paglia triturata, ben noti nei contesti siciliani di XI-XIII secolo, e coppi a superficie decorata da striature parallele incise a pettine, definiti normalmente “bizantini”. La classe più omogenea di ceramica è l’invetriata monocroma verde che rimanda alla fine del XII secolo, prima della metà del XIII. Tutta la ceramica diagnostica si inquadra comunque in età medievale e sembrerebbero mancare reperti più antichi. 1

Fin dai secoli scorsi Diego Miceli e Giovanni Caruselli avevano identificato il sito di un’antica fortezza sul colle della Giudecca. Dalle testimonianze storiche dell’Amari e del Fazello avevano appreso che:

La formidabile città di Platani sorgeva sulla cima del monte stagliato e dirupato d’ogni banda a 8 miglia da Eraclea Minoa. Al monte si sale per una sola strada ch’è uno stretto passo custodito da tre fili di mura ovvero da un superbo fortilizio. 2

Il monte della Giudecca era l’unico del feudo di Monforte o Platani a rivestire le caratteristiche indicate. I cocci di ceramica, le monete, le mura di un castello e le abitazioni diroccate, che si trovavano sulla collina, confermavano la loro ipotesi e, pertanto, i predetti studiosi conclusero che il sito di Platano non poteva essere che sul colle della Giudecca.
La città di Platano è citata come inespugnabile fortezza bizantina, che tra il X e l’XI secolo ebbe un ruolo non secondario nelle lotte tra gli Arabi per la conquista dell’isola e tra Arabi e Normanni per il predominio. Inoltre, è ricordata da Idrisi come fortezza (hisn) ulteriormente munita di una roccaforte (ruqqah).3
Giovanni Caruselli ha ipotizzato che il nome Platano derivasse dal greco Platanos, cioè a dire plataneto. Questo nome e i suoi derivati, come Platanella e Platanelli, (secondo l’uso del tempo che dava ad una parte del feudo il nome al diminutivo), sono stati introdotti durante la dominazione bizantina della Sicilia.
Sull’odierna collina della Giudecca i musulmani trovarono: Una città appellata Platanos. La più recente moneta di rame rinvenuta sulla Giudecca è dell’imperatore bizantino Michele III (842-866 d. C.), l’ultimo che regnò in quella parte dell’isola. 4
Una dettagliata descrizione della città è stata fatta da Idrisi nel 1154: Il castello di Platano è abitazione in sito alto, dominato da un’eccelsa rocca e superbo pinnacolo; discostasi dal mare sei miglia all’incirca. Platano, superbo fortilizio sito in alto, terreni di seminagione ed abbondanti prodotti agrari; ha molti orti e alberati e frequente popolazione, sia fissa che avventizia. Da Sciacca a Platano 17 miglia. 5
L’esatta localizzazione della città di Platano, indicata dagli storici distante da Eraclea Minoa circa 6-8 miglia,6 ha fatto nascere un’accesa disputa tra gli studiosi del passato. Iniziò a discuterne Michele Amari, che ipotizzò l’esistenza di Platano sul colle Montesara, un rilievo che sorge ad Ovest del corso del fiume Platani. Quest’ipotesi, successivamente messa in dubbio dallo stesso Michele Amari, fu fatta propria da Gaetano Di Giovanni. Di parere discordante fu Giovanni Caruselli, che identificò il sito di Platano sul colle della Giudecca. Il Caruselli era un esperto conoscitore dei luoghi, essendo nato e vissuto a Cattolica Eraclea, e, pertanto, dopo avere effettuato delle ricognizioni sia sul Montesara che sulla Giudecca, fu in grado di escludere l’ipotesi del Di Giovanni e dare valore scientifico alla propria.
La disputa continuò a lungo e Gaetano Di Giovanni rispose a Giovanni Caruselli:

Con un astioso e polemico libello (Il Kal’at Iblatanu), ribadendo le proprie conclusioni ancora una volta in modo poco convincente, soprattutto in mancanza di qualsiasi riscontro archeologico. L’erudito insisteva specialmente sulla testimonianza di Idrisi che aveva posto il corso del Platani ad est della fortezza, condizione apparentemente rispettata da Monte Sara ed altrettanto apparentemente negata da Monte della Giudecca. Dal canto suo Caruselli tornò qualche anno dopo a ribadire le proprie conclusioni, questa volta senza neanche darsi pena di citare direttamente l’avversario (G. Caruselli, Sulla storia della Sicilia, pp.14-26). Nonostante tutto, però, l’identificazione di Platani con Monte della Giudecca venne accolta soltanto, e non senza perplessità, da Salvatore Raccuglia (Camico, pp.56-57); mentre Ignazio Scaturro (Storia della città di Sciacca, I, p. 309) e lo stesso Carlo Alfonso Nallino (St. Mus. III, p.617, nota 3), tributarono un poco meritato omaggio a Di Giovanni, accogliendone le mal fondate tesi. Più di recente, Monte della Giudecca è stato oggetto di una rapida ricognizione da parte dell’archeologo E. De Miro che vi ha segnalato l’esistenza di un centro fortificato, senza però avanzarne una datazione né, tanto meno, un’identificazione (cfr. P. Griffo, Sull’identificazione, p.77, nota 1). L’ipotesi di Caruselli sembra, invece, pienamente dimostrata dalle ricognizioni effettuate su Monte della Giudecca e Monte Sara da F. D’Angelo, J Johns (Cenni in Monte Guastanella, p.33, e comunicazioni personali) e da V. Giustolisi (Camico, p.113 e Introduzione a F. Maurici, L’emirato sulle montagne, pp.12-20). A V. Giustolisi si deve anche la constatazione, immediata ma non priva d’importanza,, dell’ubicazione di Monte della Giudecca su un’ansa del fiume Platani che, quindi, scorre tanto ad est che ad ovest del rilievo, venendo così rispettata l’indicazione fornita da Idrisi (Camico, p.113). 7

Un altro studioso, che si è occupato del colle della Giudecca, è stato Giuseppe Otto. Nel suo dattiloscritto Cattolica Eraclea ed i suoi dintorni ha descritto la via d’accesso alla sommità del colle e gli interessanti rinvenimenti effettuati:

La salita, oggidì la più frequentata perché la più corta, comincia presso la casa Fornazzo laddove il fiume Jazzo Vecchio sbocca nel Platani, s’arrampica sul monte serpeggiandolo ed arrivata sull’altipiano attraversa un taglio cavato apposta nell’orlo della pianura per collocarvi una grande cisterna, adesso colmata con pietrame. Questo fatto prova che il sentiero è di recente costruzione. L’antico unico accesso venne dalla vecchia trazzera Cianciana – Cattolica e la mulattiera, prima di arrivare alla casa Giudecca, passava per un taglio formato da due grosse e basse mura a secco, non databili, fatte di pietrame di media grandezza raccogliticcio, ed era fiancheggiata da due torri rotonde, le fondamenta delle quali si possono ancora vedere. Il campo davanti questo taglio serviva una volta per seppellire i morti e dappertutto compaiono le ossa di non si sa quale popolo, perché là manca ogni corredo funebre. Comunque fu sempre una superstizione dei popoli antichi quella di credere che le ombre dei morti spaventassero il nemico aggressore, e perciò mettevano i loro morti a guardia delle mura. Anche la casa Giudecca è notevole. Le mura massicce portano delle volte a botte ed il pavimento è fatto da ciottoli fluviali di vari colori che formano un disegno geometrico. Tutto questo ci fa ricordare le belle ville romane. Le due grosse mura summenzionate cingevano un’area arativa e nel fondo era l’unica entrata nella fortezza, anche cinta quella da mura costruite da grossi blocchi irregolari, l’ingresso stesso fiancheggiato da un lato dalla acropoli, dall’altro da un declivio ripidissimo. È questo il punto il più stretto dell’accesso alla fortezza ed al quale accenna la leggenda quando dice: “Nel territorio ora agrigentino, al Camico, edificò (Dedalo) sulla roccia una città, salda più che ogni altra, da non potersi prendere con la forza; vi fece artatamente un accesso così stretto e tortuoso, da potere essere facilmente difeso da tre o quattro persone; perciò Kokalos vi stabilì la sua reggia e vi custodì le sue ricchezze, e la ritenne imprendibile per l’abilità dell’artefice.8

Negli ultimi anni Angelo Cutaia, sulla scorta di quanto sostenuto da Giacomo Spoto 9, ha affermato che la città di Platano si trovava sul Collerotondo e non sulla Giudecca. Per non trascurare nulla riportiamo quanto affermato dall’autore dell’Itinerario arabo Normanno Sutera Agrigento:

Monte della Giudecca non è Plàtanu – Se Plàtanu fosse sul monte della Giudecca, Platanella (alias Mongiovì) si dovrebbe trovare limitrofa e più bassa, meno imponente, rispetto al monte di cui porta il diminutivo. Invece dista dalla Giudecca circa sei chilometri e fra essi è l’altura di Monte Sorcio che, sulla loro congiunzione essendo alto 420 metri, ne impedisce la reciproca visione. Inoltre attorno al monte della Giudecca sono monti più elevati che gli fanno corona e lo sottraggono alla vista, nessuno dei quali può essergli associato in rapporto di soggezione altimetrica o dimensionale. Monte della Giudecca dista dieci miglia dalla foce del Fiume (Capo Bianco) e non sei. Si trova a venti miglia da Sciacca e non a diciassette. Non può descriversi come eccelsa rocca né come crescente pinnacolo poiché la sommità è costituita da un vasto pianoro dal perimetro superiore al miglio. Inoltre i suoi immediati dintorni sono inospitali, aridi, quasi sterili, non coltivabili ad orti e frutteti. Essendo accidentati, non presentano quelle caratteristiche di pervietà necessari ad accogliere una trazzera di lunga percorrenza, quale doveva esserci in un posto con frequente popolazione sia fissa o avventizia. Infine il sito è discosto dall’attraversamento della strada Agrigento – Sciacca che si trova più a valle, e non vede il mare. Insomma la non corrispondenza delle sue caratteristiche orografiche, topografiche ed agricole con quelle di Idrisi e Fazello mi fa dubitare fortemente che possa corrispondere al Plàtano dei testi. Il grosso abitato fortificato sarà stato uno degli ultimi ridotti saraceni, ingrossato di popolazione durante gli anni finali della ribellione. La fortificazione sommitale era in contatto visivo con la fortezza di Rocca Motta e indirettamente col castello di Girgenti, tramite una fossa del fuoco ancora esistente sulla cima del monte Giafaglione. 10

Un’osservazione di carattere storico-geografico ci convince sempre di più che la fortezza sul colle della Giudecca deve essere identificata con Platano. Il Fazello nella sua opera sulla storia di Sciacca, trovandosi a girovagare per la bassa valle del Platani, afferma di aver visto su una collina (Collerotondo) tra:

Pecuraro (Montesara) e Platanella(Mongiovì) una gran città rovinata (probabilmente Ancyra sul Collerotondo) e poco di sopra in un colle tutto intagliato intorno, che da man destra è bagnato da fiume Lico, (anch’esso chiamato monte Platanella) si vedono le meravigliose rovine di una città, la quale era un miglio di giro e non si poteva andar se non da una via. E poco lunge queste fortezze: Guastanella, La Motta e Mussara di nome saracino, le quali furono prese nel corso delle sue vittorie da Ruggiero, conte di Sicilia. 11

La città fortezza che insiste sul monte della Giudecca ha le seguenti caratteristiche che gli storici attribuiscono a Platano:
1°) Si trova su un’ansa del fiume Platani che, quindi, scorre tanto ad est che ad ovest del rilievo, venendo così rispettata l’indicazione fornita da Idrisi 12 e s’incontra dopo Collerotondo (la collina posta tra Montesara e Platanella, su cui è stata vista la grande città rovinata di Ancyra), chiamata secondo il Fazello pure Platanella (probabilmente Platana o Platanos) e prima delle fortezze di Missar o Minsciàr (Mushar di monte Castello), Guastanella e La Motta.
2°) Le mura della città circondavano un vasto pianoro di circa un miglio di lunghezza (cosa che non era possibile per il pianoro in cima a Collerotondo di mq. 1800-2000, mentre lo è per quello della Giudecca).
3°) Sul promontorio, risalendo il fiume, si poteva salire da un solo stretto viottolo, come oggi si continua a fare per la Giudecca e non per Collerotondo, facilmente accessibile da diversi punti.
4°) Il castello, che precede ed è più vicino (poco da lunge) alle fortezze Mussara (Sant’Angelo Muxaro), Guastanella, la Motta è quello di Monte della Giudecca. Se si fosse trattato del castra di Collerotondo, l'autore avrebbe dovuto citare quello della Giudecca di maggiore dimensione e più fortificato, che lo segue e precede le fortezze anzidette.
5°) Platano resistette per lungo tempo all’assedio, riuscendo ad approvvigionarsi dell’acqua necessaria attingendo a dei pozzi, che abbiamo ritrovato sulla Giudecca,13 ma non sul Collerotondo.
6°) I reperti archeologici trovati nella parte centrale di Collerotondo, idonea per un insediamento notevole, risalgono al IV secolo avanti cristo e depongono in favore di Ancyra.
7°) Il colle Stracciazza o Casotta venendo da Eraclea s’incontra prima di Montesara e Platanella, dista meno di sette miglia dalla foce del Platani, non presenta ruderi tali da far pensare ad un grande insediamento e, pertanto, non può essere il sito della gran città rovinata vista dal Fazello.
Per finire, confortato dagli studi degli storici che mi hanno preceduto e dalle constatazioni personali, eseguite in compagnia di Ferdinando Maurici e i componenti del progetto Dialogos, credo che si può ragionevolmente affermare che Platano si trovava sul colle della Giudecca. Per fugare ogni ulteriore dubbio, occorrerebbe promuovere un’indagine approfondita sulle due fortificazioni, che, sono certo, consentirebbe il ritrovamento degli elementi mancanti a comporre l’intero mosaico.

SCHEDA RIASSUNTIVA SU PLATANO

Dati certi

Si trovava nel feudo Monforte o Platani sulla riva del fiume, in una delle due colline Collerotondo e Giudecca che presentano ruderi di fortificazioni medievali.
Il feudo di Monforte nel 1645 era così delimitato: dal fiume Platani che segnava il confine con i territori del comprensorio di Sciacca; dai feudi Borangio, Aquileia, Cattà, San Giorgio, Jazzu vecchiu; dalla Terra di Montis leti (Montallegro) e suoi feudi e dal mare.
Il feudo era composto dai seguenti suffeudi: Vizzini, Piana dello Bammuso, Piana del ponte, Gurgo di Marzo, Ardicola, Mortilla, Monaca, Salina, Alvano, Judica (Giudecca), Ingastone, Maniscalco (Collerotondo e Platanella).
Ruderi di castra o casali sul: Collerotondo dimensioni modeste; sulla Giudecca dimensioni più grandi; sulla collina di Punta di disi piccole dimensioni; sul Principotto o Monforte una rocca, da cui si domina tutto il feudo, ed alcuni casalini.

Dati probabili

Da Edrisi apprendiamo che: Il percorso di questo fiume dalla sua origine fino al mare è lungo 50 miglia.
Da Sciacca a Platana diciassette miglia.
Da Platano a Girgenti circa 20 miglia.
Da Platana si va a Gardata o Gardutàh ( Giardat o alla gran Pianura contrada Giardina di Sant’Angelo?) verso Oriente; da Gardata a Al Minsciar (Mushar) e quindi a Sotir (Sutera). Al Minsciar o Mishar è il Mussaro di Sant’Angelo Muxaro. Quindi, il tragitto poteva essere: da Sciacca a Platano ( Giudecca), a Minsciàr e Gardata (in territorio di Sant’Angelo Muxaro), e si arrivava a Sotir (Sutera.) Il Picone per il tragitto Sutera - Agrigento ipotizza: Da Sutera a Minsciàr o Mushar o Mussaro (Sant’Angelo Muxaro -), attraversando i feudi Salacio e Iazzu vecchiu-Giudecca si passava per Platano e dopo circa 8 miglia ad Al Qattà tra Raffadali e contrada San Giorgio, che distava da Girgenti circa 12 miglia.14
Insediamenti testimoniati dai reperti

Collerotondo (m. 262): insediamento abitativo del IV secolo a. C. in media collina; fortezza medioevale in cima di carattere militare, probabile posto di guardia.
Giudecca (m. 322): castello medioevale in cima, con insediamento abitativo arabo- giudaico nel pianoro sottostante.
Rinvenimenti archeologici

Il monte della Giudecca è sempre stato visitato da studiosi e ricercatori, tra cui Diego Miceli, Giovanni Caruselli, Ernesto De Miro, Otto Giuseppe, Ferdinando Maurici, Maria Serena Rizzo, Maurizio Paoletti con la sua equipe di archeologi e studenti (progetto Dialogos a cura del prof. Damiano Zambito) ed altri, che hanno scoperto tracce visibili e reperti risalenti a diverse epoche: sicana, greco-romana, bizantina, araba, normanna e giudaica.
Uno dei primi ad occuparsi del sito è stato l’agrimensore Diego Miceli (1780-1878), autore dell’opera storica “Cenni sopra Cattolica”, oggi introvabile, in cui ha affermato che:

Essere sopra la Giudecca rottami di vasi e di tegole e monete antiche. Il colmo del colle è inaccessibile da tutte le parti all’infuori da uno stretto passo all’Est che era chiuso da tre fili di muro e quindi ben custodito. … Nel secolo scorso alla Giudecca fu rinvenuto il cadavere di un uomo con la spada a fianco. Questo era usanza tanto dei Greci che dei Romani. …Evvi nella parte più elevata di questo monte gli avanzi di un edificio di arte affatto barocca. Di esso conservasi ancora le basi, su cui s’innalza qualche metro di muro… Sono gli avanzi del tempio di Venere o di altro edificio? Questa rovina è purtroppo adesso distrutta e restano soltanto sul luogo dei belli blocchi di arenaria, accuratamente tagliati rettangolari. base di una coppa, rinvenuta sull’acropoli. Questa iscrizione data secondo la grafia dal IV secolo a. C. 15

Il prof. Ernesto De Miro, sovrintendente ai beni culturali ed ambientali della provincia di Agrigento per tanti anni, oltre che insigne studioso, avendo eseguito appropriate indagini sulla predetta collina, tra le altre cose, afferma che:

Sul fianco settentrionale si conserva un tratto della cinta muraria, a tecnica di piccole e irregolari assise di gesso (come in molte parti di Eraclea Minoa); dietro a questo, sulla cresta di una balza più elevata, altra fortificazione della stessa tecnica ne circuisce i lati di nord e di est. Sull’alto del monte, l’ampio pianoro che lo corona è tutto difeso in giro da muri e torri; il lato meridionale strapiomba a picco sul vallone sottostante. Il terreno è sparso di pietre e cocciame. 16

Lo studioso austriaco Giuseppe Otto ha accuratamente visitato il monte della Giudecca ed ha potuto costatare che:

L’altipiano davanti all’acropoli è pieno di cocci e si può vedere le fondamenta di piccole case quadrate. Era qui il centro della città araba, perché là si trova la maggior parte della ceramica araba, rotta in piccole schegge. Ma giustamente appié dell’acropoli deve essere anche esistita un’officina di un artefice, perché là ho trovato scorie di fonderia, frammenti di lingotti di bronzo, diversi pesi ed un frammento di un vaso di pietra, l’unico conosciuto in tutta la Sicilia, fatto da una pietra probabilmente importata e che mostra un ornamento tipico per il periodo stentinelliano del neolitico. Visto che in quell’epoca e anche più tardi l’arte della lavorazione delle pietre era sconosciuta nella Sicilia, si può concludere che soltanto un artigiano immigrato possa esserne il produttore.
L’acropoli era provvista di due mura di cinta costruite da blocchi irregolari come il muro che cingeva tutto l’altipiano. Sulla cima era una torre, il suo fondamento sussiste ancora. Quest’acropoli era, durante l’occupazione araba, la residenza di un nobile gaito perché vi hanno trovato una parte di un’azza cerimoniale , un amuleto d’argento con un testo dell’epoca fatimidica, un frammento di un vaso prezioso di sicura importazione dall’Egitto (dunque alcuni anni dopo il 970, l’anno dell’occupazione dell’Egitto dai Fatimidi della Tunisia), svariati sigilli che confermavano una volta l’autenticità delle pergamene, una quantità di pesi (oncia romano – egiziana, schat, deben, migr e mitqual), ornamenti dorati per la bardatura dei cavalli e ferrature decorate. Pare qu’egli fu un nobile di fiducia della corte dei Fatimidi che regnava su una popolazione di Tunisini esiliati dalla loro patria, perché la stragrande quantità di vasellame trovata appié dell’acropoli è uguale a quello che fu rinvenuto negli scavi eseguiti nella Qal’a dei Benì Hammàd in Tunisia.(Marcais,G., Les Poteries & Faiences de la Qal’a des Benì Hammàd, Costantine, 1913). In quei tempi furono gli elementi irrequieti deportati senz’altro nella Sicilia e nell’Andalusia per colonizzare il paese. Al versante settentrionale del monte si trovano molte tombe, probabilmente dei Saraceni, ma purtroppo senza corredi funebri, eccetto talvolta qualche anello di ferro. Là fu scavato l’unico pozzo d’acqua e qui scaturisce anche durante l’inverno e la primavera una sorgente.
Il lato meridionale, che si precipita a picco nel vallone sottostante laddove si può vedere le rovine di due mulini una volta attuati dal fiume Jazzo Vecchio, offre soltanto alcune tombe a cremazione probabilmente romane. 17

Tra il III e il V secolo d. C. i patrizi romani preferirono vivere nelle loro ville di campagna o fattorie, unitamente ai familiari e ai servi. Per difendersi dalle continue incursioni dei pirati barbareschi, talvolta costruivano le loro dimore sulle colline più impervie, cui si poteva accedere mediante stretti viottoli. Sulle loro cime costruivano roccaforti e castelli che servivano da ulteriori rifugi per tutti i coloni in caso di aggressioni e assedi. Così avvenne per la villa romana sul colle della Giudecca, dove trovarono rifugio gli abitanti della distrutta Heraclea e dei villaggi sorti lungo la riva del Platani e nelle immediate vicinanze.
Sul lato occidentale della Giudecca sono stati trovati i resti di una villa romana:

Su una piccola altura, era una volta una villa romana, perché ho visto qui la metà di una tavola rotonda fatta da una pietra bene levigata con un foro nel centro e l’orlo un poco elevato. Anche di un’altra tavola ho trovato un frammento ch’è di diorite di colore roseo macchiettato levigato a tutt’e due i lati. Di più non mancano frammenti di bei bicchieri di vetro multicolore. Nella piana sottostante ho trovato la pietra rotante di basalto di un mulino romano, spinto una volta dai servi o da un mulo. Appiè del versante meridionale dell’altura summenzionata era il cimitero della famiglia romana che si è ritirata qui verso la fine dell’impero romano, quando il litorale era già troppo malsicuro per vivere là tranquillamente. Il padrone si fece erigere un bel monumento sepolcrale di marmo bianco e di schisto grigio, oggi distrutto, ma tuttavia restano ancora delle lastre rotte. Purtroppo l’epitaffio che portò il nome e i titoli del padrone fu venduto dal contadino e non si sa più chi l’ha comprato.18 Dicono che gli scheletri erano in buon’ordine e non sconvolti, ma hanno là trovato niente eccetto alcuni chiodi di ferro delle casse da morto. Pare che questa famiglia tardo-romana era già della fede cristiana che non tollerava più i corredi sepolcrali. Ancora più a sud, su uno sperone, sono delle tombe incavate nella roccia viva proprio nell’orlo dell’altipiano – probabilmente bizantine perché a fossa come sarcofaghi – ma già violate da tempo immemorabile. 19

Sui resti di una fattoria romana, probabilmente è stata costruita l’odierna “casa della Giudecca”, il cui pavimento è fatto con ciottoli fluviali disposti a mosaico. Osservando bene si nota che l’attuale costruzione è il risultato di diversi rifacimenti e restauri, che sono stati eseguiti nel corso dei secoli. Si può tra l’altro ipotizzare che sia servita, come luogo di raccoglimento e di preghiera per la comunità berbero-giudaica che abitava sulla collina.
L’archeologa M. S. Rizzo ha eseguito un’indagine di superficie sulla collina della Giudecca ed ha evidenziato che:

L’abitato medievale sorgeva sulla parte più alta del rilevo, tra q. 230 e 300 ca., dove la pendenza è più moderata; in quest’aria infatti sono visibili i resti di alcune strutture murarie, e si rinvengono, con notevole densità, frammenti di ceramica. A q. 260 ca. corre un muro, lungo m.250 ca., con direzione SE-NO, del quale è visibile soltanto un filare; a q. 280 ca. si trovano invece i resti di una costruzione rettangolare (m 7 x 15 ca.), probabilmente moderna, realizzata con blocchi della pietra locale legati con malta. Il tetto è a doppio spiovente, l’apertura principale si trova sul lato Nord.
Un muro di fortificazione circonda la terrazza più alta sui lati Sud, Ovest e Nord mentre il fianco orientale, tagliato naturalmente a strapiombo,è privo di opere difensive. Il muro che racchiude un’area rettangolare di ca. 40x100 m. è costruito in parte con pietre appena sbozzate, in parte, soprattutto in corrispondenza degli spigoli, con blocchi squadrati. Con la stessa tecnica è costruito una sorta di torrione quadrangolare, che cinge uno spuntone di roccia affiorante all’interno della cinta muraria. La struttura, m 20x10 ca., si impianta sulla roccia, che è in parte livellata per accoglierla. …
Il materiale rinvenuto sul sito è costituito da frammenti di tegole e di contenitori di ceramica invetriata e non; sono stati inoltre raccolti due frammenti di macine di pietra lavica ed un’altra, integra, del diametro di 40 cm e dello spessore di 25 è stata lasciata sul posto.20

Ferdinando Maurici (accompagnato da Franco Mangiapane, Lorenzo Gurreri e Franco Mascarella), durante un’escursione sulla collina ha trovato due
Frammenti di mqabriyas che attestano chiaramente la presenza musulmana su Monte della Giudecca. Entrambi i frammenti sono stati rinvenuti ai piedi della fortificazione che difende la terrazza sommitale del monte. L'area è interessata dal parziale crollo delle mura della fortificazione stessa. Non è necessario ipotizzare la presenza di un'area cimiteriale proprio alla base della fortezza e quindi nel mezzo dell’area insediativa. Si può pensare piuttosto che i due frammenti siano stati riutilizzati nella fortezza come materiale da ricostruzione e che siano caduti in seguito al parziale crollo delle muraglie stesse. Tutto il sito, inoltre, è stato oggetto di grandi lavori di spietramento per ricavare superficie coltivabile o per pascolo. Non si può dunque escludere che i due frammenti siano stati gettati insieme ad altro materiale ai piedi della cima proprio durante uno spietramento. Come ultima ipotesi, si potrebbe pensare anche che i due frammenti di stele siano stati trovati da tombaroli e quindi scartati per il loro peso ed ingombro o per il loro scarso valore commerciale. In tutti i casi è ben difficile che i due frammenti, all’atto del ritrovamento, si trovassero in giacitura primaria.
Il primo frammento di pietra tombale è in calcare, pesa 6 Kg., è lungo nel punto massimo 27 cm., largo nel punto massimo alla base 14 cm., alto 22,5 cm. Si tratta della parte terminale di una mqabriya. La stele appartiene ad una tipologia ben nota e diffusa, oltre che in Sicilia, in Africa del Nord ed in Spagna. Presenta plinto prismatico rettangolare a tre gradini h. rispettivamente cm.6,5, cm.3,8, cm. 3,8 – larghezza cm.14, cm.10, cm.7). La stele vera e propria è anch’essa di forma prismatica rettangolare e, come normale, è considerevolmente più alta dei singoli settori del plinto (h. cm. 10, larga cm. 4). Non si riscontrano tracce di iscrizioni incise o di decorazione di alcun tipo né sui bordi del plinto né sulle facce della stele. Ad esclusione di questo non secondario particolare, questo primo frammento di mqabriya da monte della Giudecca è molto simile ad una delle mqabriyas con iscrizione rinvenute a Iato.
Il secondo frammento è scolpito in un tufo relativamente compatto ma molto più leggero (il frammento pesa 3 Kg.) e friabile del calcare. Le dimensioni sono piuttosto simili a quelle del primo frammento: lung. Max cm.26,5, larg. Max cm. 15,5. Il pezzo si presenta in condizione di conservazione molto peggiori rispetto al primo frammento, ma ciò non crea difficoltà particolari per la ricostruzione ideale della tipologia. Anche in questo caso sembra trattarsi della parte terminale del mqabriya. Anche qui il plinto si divide in tre sezioni con progressivo restringimento. Ed anche in questo caso la stele vera e propria sembrerebbe avere avuto sezione rettangolare. Assente anche nel secondo frammento qualsiasi traccia di epigrafe. La datazione dei due reperti non può essere precisata, anche se sul loro carattere islamico non vi sono dubbi. Se l’identificazione di Monte della Giudecca con l’abitato fortificato di Platano ricordato dalle fonti è esatta, si deve ipotizzare per il sito una continuità di vita pressoché ininterrotta dall’epoca bizantina sino alla definitiva cacciata dei musulmani sotto il regno di Federico II. Le due mqabriyas, vista anche l’estrema semplicità, devono necessariamente collocarsi, almeno per il momento, ad una lunga fase compresa fra il X e la prima metà del XIII secolo. 21

Recentemente, con il progetto “Dialogos”, un gruppo di archeologi e studenti di archeologia dei paesi del Mediterraneo, guidati dal prof. Maurizio Paoletti, ha eseguito delle ricognizioni sul colle della Giudecca e dintorni.
Secondo il predetto studioso, ad un primo esame si evidenzia l’esistenza sul colle della Giudecca di un insediamento medioevale di notevole interesse, testimoniato sia dall’esistenza delle mura di una fortezza, sia dall’abbondanza di ceramica verde, risalente al XII e XIII secolo. Detta fortezza probabilmente fu distrutta in seguito alla lotta di Federico II contro gli arabi.
Il gruppo di lavoro del progetto Dialogos, formato dagli archeologi Stefano Genovesi, Luca Zambito, Donatella Novellis e Maria Rocco, i quali guidavano un gruppo di studenti universitari, ha messo in luce le basi e una parte delle mura di cinta del castello:
L’area del castello occupa il pianoro sommitale che si innalza sul versante sud-orientale… Le mura di fortificazione seguono perfettamente la morfologia del pendio – in alcune parti molto tormentata – e si adattano ad essa; cingono tutti i lati del monte, eccetto il versante sud-orientale, fortificato soltanto lungo l’estremità meridionale, che per il tratto restante risulta già ben protetto naturalmente da un suggestivo e profondo strapiombo roccioso affacciato sul fosso dello Jazzo Vecchio. La tecnica di realizzazione dell’apparato murario sembra piuttosto omogenea sull’intero perimetro delle mura, realizzate con pietre in calcare di medie e grandi dimensioni di forma assai irregolare… Le pietre angolari presentano in alcuni casi una squadratura più accurata, sebbene anch’esse non rechino segni di una rifinitura superficiale. I conci sono legati da una malta – in alcuni punti particolarmente consistente – di colore opaco e tendente al grigiastro.22

Il predetto gruppo, che ho avuto il piacere di accompagnare, ha raccolto e classificato parecchi frammenti di ceramica invetriata monocroma verde e ceramica comune da conserva, che datano l’insediamento al periodo medioevale.
La maggior parte dei frr. di Monte della Giudecca trova una collocazione cronologica compresa a cavallo tra i secoli XII e XIII, periodo in cui si verifica la progressiva perdita di ruolo egemonico della Sicilia nell’ambito dei commerci a favore di centri come Genova e Pisa.23
Sul pianoro sono state rinvenute abitazioni diroccate, probabili dimore di una comunità arabo-giudaica, stabilitasi sulla collina dopo la distruzione della fortezza. Del resto il toponimo Judeca o Giudecca spesso indica il luogo abitato o frequentato da gente d’origine ebraica. A comprovare la presenza di abitanti di lingua ebraica nell’università di Siculiana (di cui faceva parte la Judica o Giudecca) c’è il fonte battesimale della chiesa del Santissimo Crocefisso:

La vasca battesimale sopra cui si innalza quello che era il cielo della “vara” del Crocifisso, sorretto da quattro colonne corinzie, è ricavata da un antico sarcofago marmoreo con iscrizione ebraica dedicata, nell’anno 1475, a Samuele, giovane figlio del rabbino Giona Sibeon; lo stesso sarcofago presenta due stemmi in bassorilievo: a destra quello della reale casa di Castiglia in Sicilia, inquartato in croce di S. Andrea con quattro pali in capo e alla punta e aquile sveve ai fianchi, a sinistra quello della reale casa di Castiglia in Sicilia, con castello sormontato da tre torri in primo, leone in quarto e pali in secondo e terzo. La presenza degli stemmi reali e la simmetrica sobrietà delle linee di incisione depongono per un personaggio molto importante e facoltoso, forse un medico ebreo, che aveva avuto un intimo rapporto con la famiglia reale, e non solo ciò fa del pezzo marmoreo qualcosa di unico ma testimonierebbe anche l’esistenza, in quegli anni, di una poco nota comunità ebraica a Siculiana che poteva godere di particolari privilegi.24

La poco nota comunità ebraica della baronia di Siculiana, probabilmente, era quella della Giudecca del feudo Monforte o Platani.
Sul versante nord-ovest sono visibili delle tombe scavate nella roccia:
A ridosso di uno sperone roccioso con visibilità sul fiume Platani, è stata individuata un’area cimiteriale. Si tratta di una necropoli sub divo composta da una decina di tombe visibili sul terreno, ricavate direttamente nel gesso affiorante (tratto tipico della configurazione geologica della collina), completamente vuote, in quanto già violate in antico. Le tombe a fossa, a pianta irregolarmente rettangolare o trapezoidale, orientate E-O, presentavano in origine una copertura di lastre di arenaria, come si deduce dai frr. di lastre sparsi sul terreno circostante.25



Ruderi sul pianoro della collina della Giudecca.




CAPITOLO IV

GLI INSEDIAMENTI BERBERI: RAHAL – AL- GIDÌDI (JADÌI O GADIDAH), JUDICA O GIUDECCA.

La conquista araba della Sicilia aveva messo in moto un flusso d’immigrazione considerevole. Le campagne del Vallo di Mazara furono invase da coloni Arabo-berberi, provenienti dalle varie parti dell’Africa. Ad attirarli furono la fertilità dei campi, che erano loro assegnati, e la possibilità di poter professare liberamente la propria religione. Al seguito degli Arabi-berberi c’erano anche Ebrei, che ritrovando altri correligionari, installatisi in Sicilia, da tempi remoti, e sfruttando la tolleranza della società siculo-araba, costituirono delle piccole comunità, che con discrezione professavano la religione ebraica. Una di queste comunità si era formata nel territorio di Platano, che dai tempi della colonizzazione romana era stata sede d’immigrazione di nuclei ebraici.
Secondo lo storico Michele Amari:

Dalla tradizione, al par che dal linguaggio, parecchie tribù berbere sembrano senza dubbio d’origine semitica; ovvero, se tutta la gente berbera il sia, quelle sembran passate in Occidente in tempi men remoti, talché il dialetto loro abbia ritenuto molto più delle voci e forme semitiche.26

Dopo la sconfitta definitiva degli Arabi e la conseguente distruzione del castello di Platano, gli abitanti Siculo-berberi, d’origine semitica, continuarono ad abitare sul colle Platanos. Federico II e i suoi eredi favorirono la colonizzazione delle terre circostanti, mediante l’immigrazione di famiglie ebree d’origine sveva, e chiamarono il nuovo insediamento Rahal - al-Gidìdi e le terre dei dintorni costituirono il feudo Judica o Giudecca.
Dal 1303 in poi il feudo di Monforte o Platani era sotto la giurisdizione della chiesa metropolitana di Palermo, che lo dava in concessione ai baroni delle università vicine:

Dopo la restituzione dei suoi feudi (che gli erano stati tolti in seguito alla guerra del vespro dal milite Manfredi di Aspello) nell’anno 1303, la chiesa metropolitana di Palermo continuò a mantenerli sotto la sua signoria, ma indi a poco li concesse a vari signori sotto un annuo censo. Uno di loro fu Gilberto Isfar et Corilles al quale furono concessi dalla chiesa il tenimento di Monforte o Iblatanus e parte del feudo Ingastone nell’anno 1422 sotto un annuo censo. Sulla fine del XVI secolo Filippo III, re di Spagna, incaricò Biagio Isfar et Corilles coi feudi Alvano, Judeca, Cannamela, Ingastone, Maniscalco, Piana Vizzì a condizione di pagare all’arcivescovo di Palermo onze cento annue, cominciando dal 1612. Quello ch’è certo si è che ai tempi in cui Tommaso Fazello viaggiava per la Sicilia per raccogliere gli elementi della sua storia, nel primo cinquantennio del XVI secolo, di Platano si era perduto anche il nome, pur avanzando di essa mirabili ruine. I suoi abitanti, sbandati forse per comodità o per tornaconto lungo le fertili terre bagnate dal Platani, saranno stati raccolti dal Barone Blasco Isfar et Corilles, Signore di Siculiana, che fondò al 22 marzo 1612 nella contrada Ingastone, una parte della quale si chiamava una volta “Terra Maniscalco”, il nuovo comune di Cattolica, perché “casalia sunt deserta.27
La comunità ebraica fece parte dell’Universitas civium di Girgenti fino a quando il feudo Monforte o Platani nel 1422 fu ceduto a Gilberto de Isfar, barone di Siculiana. Da questo momento la Judica e i suoi abitanti fecero parte integrante della baronia di Siculiana.
Gli Ebrei della Giudecca, sotto le varie dominazioni, vissero indisturbati e si dedicarono all’agricoltura, alla pastorizia, al commercio di sale, stoffe e animali da soma, di cui erano grandi esperti. Nel periodo intercorso tra la fine della dominazione araba e la prima metà del XV secolo, gli Ebrei vissero:

Come servi, sudditi e vassalli del re di Sicilia… ed erano, insieme agli altri abitanti del luogo, membri della universitas civium e come tali sottostavano al governo amministrativo e politico delle rispettive comunità urbane. Gli ebrei, che risiedevano invece nelle terre baronali, erano soggetti, come gli altri abitanti delle stesse terre, alla giurisdizione feudale dei rispettivi signori. La differenza fra l’ebreo e il non ebreo consisteva nel fatto che il non ebreo, ossia il cristiano, condizioni personali e sociali permettendo, poteva rivestire cariche pubbliche elettive e burocratiche, mentre l’ebreo (l’ebreo osservante della legge mosaica, non l’ebreo convertito cristiano) ne era per definizione impedito.28

Questo stato di cose durò fino a che un movimento antisemita creatosi in Spagna, sfruttando l’ideologia cristiana che intendeva cristianizzare tutto il mondo conosciuto, non cominciò a perseguitare gli Ebrei che non si volevano convertire al Cristianesimo. Il re, per evitare gravi disordini fra cittadini di diversa religione e per fare affermare quella cattolica su tutte le altre, emanò un editto, che doveva convincere gli Ebrei a farsi cristiani.

Il 31 marzo 1492 fu emanato da Ferdinando ed Isabella l’editto di espulsione per tutti gli Ebrei e le varie giudecche esistenti nell’isola furono oggetto di persecuzione e spesso vennero accusati di propagare la peste.29

L’antisemitismo in Sicilia e, quindi, nel Vallo di Mazara non fu così implacabile come in Spagna, si cercò in vari modi di convertire le comunità ebraiche alla religione cattolica e spesso si ottennero buoni risultati.
Gli abitanti della Giudecca, il cui numero probabilmente era limitato ad alcune centinaia di persone, per evitare l’esilio, preferirono accettare formalmente la religione cattolica, divennero pubblicamente cristiani (conversi) e privatamente continuarono a vivere, secondo le loro tradizioni, nell’isolamento della loro Judica. Comunemente il termine “ebreo” era riferito a chi praticava ufficialmente la religione ebraica; erano chiamati “marrani o conversi” coloro i quali si convertivano forzatamente o per convenienza alla religione cattolica.
I signori Isfar, baroni di Siculiana e possessori del feudo di Monforte o Platani, si servivano dei conversi e dei marrani per coltivare i loro feudi e tolleravano il fatto che la comunità abitante sulla Giudecca continuava a praticare la religione e le usanze dei loro padri. Dal canto loro gli Ebrei, divenuti conversi, cercarono di non suscitare odio nei loro confronti, continuando a vivere secondo le tradizioni ebraiche solo in privato.

L’atteggiamento dei nuovi cristiani verso la “nuova fede religiosa” è così sintetizzato da Pedro della Caballeria, uomo di Stato e giurista di fama, che così rispose ad un letterato ebreo che gli rimproverava di essersi battezzato, lui così esperto nella legge ebraica: “Imbecille con la Torà avrei potuto essere, al massimo, un rabbino. Adesso, grazie al piccolo appeso (Gesù) sono gratificato di ogni sorta di onori… chi mi impedisce di digiunare a Kippur e di osservare le vostre feste? 30

L’editto d’espulsione del 1492 non riuscì ad eliminare l’ebraismo esistente in Sicilia, ma accelerò il processo di conversione, più o meno sincera, alla religione cattolica, tanto a cuore alla monarchia spagnola:

L’ebraismo rimasto in Sicilia dopo l’espulsione è stato finora un universo ignorato. Secondo l’opinione prevalente, ultimato l’esodo, si concluse con esso anche la storia ebraica isolana. Noi siamo giunti ad una conclusione diversa. Quella storia non si è interrotta nel 1492, ma è proseguita ancora per molti decenni, e per spegnerla effettivamente ed in modo definitivo, prima re Ferdinando e la regina Isabella, poi il loro nipote Carlo V e il pronipote Filippo II, affidarono al Santo Officio della Inquisizione il compito di portare a termine quell’opera. La storia ebraica siciliana fu così spenta dopo oltre 60 anni di persecuzione inquisitoriale. 31

La comunità giudaica, che viveva sul colle della Giudecca, nei momenti di pericolo trovava rifugio nel casale di Monforte (oggi Principotto), facente parte del feudo di Platani, che era stato ceduto a Gilberto de Isfar con atto del notaio Urbano de Sinibaldo del 10 dicembre 1433 (riportato nel capitolo precedente).
Gilberto de Isfar nel gennaio del 1458 aveva ricevuto in enfiteusi per venticinque onze il mero e misto impero sul territorio di Monforte, dove fece costruire una torre (nella località Capo Bianco) a salvaguardia dei coloni dei dintorni, soggetti alle razzie dei pirati barbareschi. Il predetto territorio fu aggregato alla baronia di Siculiana. A Gilberto Isfar successe il figlio Giovanni, che nel 1473 vendette con patto di riscatto la baronia di Siculiana e, conseguentemente, il feudo di Platani ossia Monforte a Gilberto Valguarnera. Questa vendita suscitò il risentimento dell’arcivescovo di Palermo Giovanni di Paternò, il quale denunciò Giovanni Isfar per violazione del patto di enfiteusi. La lite tra un ricorso e l’altro si trascinò fino a quando non fu deciso che il feudo doveva ritornare nelle mani dell’arcivescovo, che lo concesse a Guglielmo Valguarnera. Gli Isfar fecero opposizione alla sentenza, ma non riuscirono a tornare in possesso del feudo Monforte e della baronia di Siculiana, fino a quando, mediante una generosa donazione, non convinsero l’arcivescovo di Palermo Ottaviano che la loro richiesta era legittima e giusta. Annullata la prima sentenza e accordatisi con i rivali-parenti, gli Isfar ebbero una nuova concessione enfiteutica e pagarono un canone maggiore di quello che avevano pagato i Valguarnera.
Nel 1525 fu investito della Baronia di Siculiana e del feudo Monforte o Platani Giovanni Isfar, cui seguì il figlio Francesco nel 1542. Francesco nel 1551 donò la baronia al figlio Giovanni, che, al compimento della maggiore età, nel 1553 ottenne l’investitura.
Nel 1561 Blasco Isfar et Corilles, in seguito alla morte del fratello Giovanni senza eredi, ereditò la baronia di Siculiana e del feudo di Monforte (proc. Invest. N.2318, 6°, n.1516). Negli anni che seguirono fondò ai piedi del casale di Monforte un villaggio chiamato Ingastone, dove nel corso degli anni andarono ad abitare i coloni del feudo. Questo villaggio ebbe un incremento repentino della popolazione che, secondo il Miceli, fu dovuto alla scomparsa del precedente sito abitativo del feudo di Platani o Monforte, cioè a dire della “Judeca”.
1 F. Maurici, Articolo pubblicato sul giornale Momenti di Ribera.
2 G. Caruselli, Sulla storia della Sicilia antica, 59-60.
3 Cfr. F. Maurici, Castelli medievali in Sicilia, 210-211.
4 G. Otto, Cattolica Eraclea ed i suoi dintorni, 11.
5 Idrisi, Il libro di Ruggero, 91.
6 Il miglio arabo misurava 1481 metri e le distanze da un luogo all’altro erano indicate approssimativamente, in base al tracciato delle strade.
7 F. Maurici, Castelli medioevali in Sicilia, 210-211.
8 Diodoro IV, 78, 2.
9 Cfr. G. Spoto, Cattolica Eraclea ed il suo territorio, 55-57.
10 A. Cutaia, L’itinerario arabo-normanno Sutera Agrigento nel libro di Idrisi, 53-55.
11 T. Fazzello, Storia di Sciacca anno 1550; G. Spoto, 56.
12 F. Maurici, Castelli medioevali in Sicilia, 211.
13 Secondo Giuseppe Castronovo fino al 1922 i contadini che lavoravano sul colle bevevano l’acqua dei pozzi. Analoga affermazione ci ha fatto il signor Leonardo Baronello, che conosce bene il colle per averci lavorato da bambino fino ai giorni nostri.
14 Cfr. G. Picone, Memorie storiche agrigentine,145; A. Cutaia, L’itinerario arabo-normanno Sutera Agrigento nel libro di Idrisi 106.
15 G. Caruselli, 64.
16 E. De Miro, Eraclea Minoa, in G. Otto, Cattolica Eraclea ed i suoi dintorni, 2.
17 G. Otto, ibidem, 2-3.
18 Acquistata e donata al museo archeologico di Palermo dal barone Spoto.
19 G. Otto, Cattolica Eraclea ed i suoi dintorni, 3.
20 M. S. Rizzo, L’insediamento Medievale nella valle del Platani, 53-55.
21 F. Maurici, articolo citato.
22 M. Paoletti, Monte della Giudecca, 9.
23 Ibidem, 32.
24 P. Fiorentino, Siculiana Racconta, 74.
25 M. Paoletti, Monte della Giudecca, 39-40.
26 M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, 229,230.
27 G. Otto, Cattolica Eraclea e i suoi dintorni,13.
28 F. Renda, La fine del Giudaismo siciliano,44.
29 T. Lo Iacono, Le stanze di Isacco, 25-26.
30 T. Lo Iacono, Le stanze di Isacco, 34.
31 F. Renda, La fine del Giudaismo siciliano, 11.

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