LAVORI E MESTIERI SCOMPARSI


LAVORI SCOMPARSI
 (TRATTO DAL LIBRO DI ANGELA ZAMBITO "Sotto la polvere del tempo")

Nell’anno scolastico 1994-1995 abbiamo effettuato una ricerca sui lavori scomparsi, per  conoscere  meglio e valorizzare la realtà socioeconomica dell’ambiente in cui viviamo. Siamo convinti, infatti, che, volendo formarci una coscienza storica e civile, non possiamo fare a meno di conoscere il nostro passato. Pertanto, abbiamo ritenuto opportuno soffermarci sulle condizioni di vita e di lavoro dei nostri genitori e soprattutto dei nostri nonni e su quelle attività che, molto diffuse fino al dopoguerra, dagli anni sessanta in poi sono del tutto scomparse o sono in via d’estinzione.

I lavori agricoli stagionali: Lavurari (Aratura)

Questo lavoro era svolto nel periodo ottobre–gennaio. Lo strumento utilizzato era l’aratro, costituito da una trave di legno alla cui estremità era situato il vomere di ferro. Gli animali da traino erano: l’asino, il mulo e raramente il cavallo. Questi animali, a volte, erano aggiogati in coppia.
L’aratura serviva a preparare il terreno per la semina. Gli operai erano retribuiti con generi alimentari e il cibo giornaliero era fornito dal proprietario della terra e consisteva in un piatto di minestra a mezzogiorno e in una guasteddra di pane del peso di un chilogrammo e mezzo la sera, che spesso i braccianti portavano a casa. [1]

Siminari (Semina)

Il periodo della semina era quello tra novembre e dicembre, durante il quale si seminavano i cereali (frumento, orzo e avena) e altre colture come: il trifoglio, la sulla e la veccia, che servivano da foraggio per gli animali. Inoltre, in questo periodo erano seminate anche le fave e i lupini (favecchi), utilizzati soprattutto come foraggio. La semina era svolta contemporaneamente all’aratura. Il seminatore seguiva l’aratro e spandeva il prodotto nel solco, che era poi ricoperto. Le erbacce, che successivamente spuntavano tra le piantine di grano, erano tolte attraverso un procedimento particolare, chiamato zappuliari e scurriri, cioè usando la zappa, oppure estirpandole con le mani.

Metiri (Mietitura)

I mietitori svolgevano la loro attività nei mesi di maggio (fave, orzo e avena), di giugno e in parte di luglio (grano). Gli strumenti usati dai mietitori consistevano in una falce impugnata con la mano destra, e tre ditali per proteggersi le dita da eventuali colpi.
La giornata lavorativa iniziava al sorgere del sole e si concludeva al tramonto. I mietitori lavoravano in coppia oppure a squadra. Colui o coloro che procedevano davanti mietevano un fastello (jemmitu), che passavano ad un compagno, il quale aggiungendovi un altro fastello li maritava e li depositava a terra.
Il lavoro dei braccianti era retribuito a fine settimana nel giorno di domenica. Il proprietario (lu burgisi) più facoltoso stabiliva, anche per gli altri proprietari, il prezzo da corrispondere per ogni giornata di lavoro. Quando il periodo della mietitura si concludeva nel nostro territorio, i mietitori si trasferivano nei paesi dell’interno, dove l’attività si protraeva fino a luglio. I mietitori cattolicesi pernottavano presso le masserie, dove i massari fornivano anche il cibo e, raramente, il vino. Il cibo comprendeva: pane, formaggio, olive e sarde salate e la sera lu cucinatu, cioè  pasta e altre vivande e qualche volta anche la carne di pecora.


Fari spichi (Spigolatura)

Dopo che la mietitura era stata effettuata, si svolgeva la spigolatura (fari spichi). Il terreno veniva controllato attentamente da alcuni uomini, ma più spesso dalle donne, che raccoglievano meticolosamente le spighe sfuggite ai mietitori e ai fasciatori e, legate queste in fastelli, le portavano a casa, dove le battevano ripetutamente con una mazza, ottenendone del grano. La quantità, a volte, era poca, ma indispensabile al sostentamento delle famiglie povere, che alcuni decenni fa erano abbastanza numerose nel nostro paese.

Pisari (Pestare i covoni per ricavarne il frumento)  

I “pisatura” raccoglievano i covoni e li depositavano nell’aia, dove li rimescolavano col tridente. Gli animali utilizzati per la pisatina erano i muli, che si facevano girare uno legato all’altro, mentre il contadino li incitava con questi versi:
Allegra e cuntenti beddra,/‘nchianiatilla ca l’am’a fari paglia!
Dopo un po’ di giri, quando le bestie erano stanche, le incitava ancora, facendo loro cambiare direzione, con questo verso: “Vota e svota, ca lu sensu ti vota!”
Mentre i covoni venivano pestati e l’aia era quasi tagliata, cioè quasi paglia, si usava ringraziare Dio con questi versi, che erano un ulteriore incitamento alle bestie:
Allegra e contenti, / ca t’haiu a dari ‘na bella nova / e la bella nova ca t’haiu a dari / a Gesù t’haiu a chiamari.
A questo punto recitava una specie di litania: O matri di li malati, / scanzatini di li malatii e di li pidati! / O santu Caloriu maggiuri, / scanzatini di li pidati e lu duluri! / Santa Rusalia, aiutati a mia / e a tutta la me cumpagnia.
Dopo, mentre incitava ulteriormente le bestie che, girando più velocemente e pestando con più forza, si avviavano verso la conclusione della pisatina, recitava ancora:
O Santissimu Sacramentu, / curreggi beddra ca ghiri a lu ventu!
A questo punto per le bestie arrivava finalmente il momento del riposo e del cibo, mentre per gli uomini il lavoro continuava: si doveva separare il grano dalla paglia (spagliari) e poi pulirlo ulteriormente, servendosi di una particolare pala.



Spagliari (Separare il grano dalla paglia)

Questo lavoro seguiva la pisatina e veniva svolto per mezzo di tradenti (tridenti). Si aspettava che il vento soffiasse; il più adatto era quello di ponente, perché leggero e regolare. Il frumento, lanciato in aria insieme alla paglia, ricadeva depositandosi a terra, mentre quest’ultima si dirigeva nella direzione opposta a quella del vento e si depositava formando la cosiddetta margunata. Si trattava di un deposito di paglia a forma di mezzaluna, che i contadini ogni tanto pressavano per evitare che il vento la portasse via. Dopo che l’aia era stata annittata, cioè la quantità di frumento depositato era superiore alla paglia, si continuava
l’operazione di ripulitura, utilizzando dei tridenti più stretti ed infine le pale. Quando il grano era stato liberato quasi completamente dalla paglia, si passava alla cernitura per mezzo di crivelli.



Cerniri (Cernita)

 A Cattolica esistevano diversi cirnitura. Per la cernita del grano gli strumenti usati erano: un criveddru  (crivello) e una pala. Il crivello era un contenitore di forma circolare del diametro di circa un metro e venti centimetri, fornito di due manici per facilitare la presa e il movimento. Le pagliuzze e l’altro materiale di scarto o cadevano o si raccoglievano in superficie, formando la cosiddetta munistitura, cioè il chicco ricoperto ancora della buccia che il cernitore depositava dentro lu zimmili e che poi veniva nuovamente passato al crivello. Esso veniva fissato ad un tripode. I cernitori venivano pagati in natura: per ogni salma di grano ripulito, ne spettava loro un munneddru (mondello) .



I MESTIERI SCOMPARSI

Acqualora (Procacciatrice d’acqua)
Andava a riempire l’acqua per conto terzi per mezzo di quartari, bummuliddra e lanceddri (brocche) nella località Capu o Funtaneddra, dove c’era un cannolu (fontanella) d’acqua potabile, quando in paese non c’era ancora l’acqua corrente. A Cattolica, infatti, esistevano allora soltanto brivaturi (abbeveratoi), alimentati d’acqua amara. Di questi abbeveratoi ne esistevano: uno adiacente allo spiazzo della Scuola Media all’incrocio tra le vie Prof. Leopardi e Agrigento, un altro in via San Giovanni, nel luogo che fino a qualche anno fa ospitava l’Ufficio di Collocamento (croce e delizia dei disoccupati), uno di fronte al rifornimento di benzina, un altro in via Aranci ed uno in via Pozzillo all’angolo con via Pietà. In seguito, quando in paese vennero installate le fontanelle pubbliche d’acqua potabile, di cui una in via Mons. Amato: lu cannolu di do’ Ste’, le casalinghe vi si recavano personalmente a riempire l’acqua. Un’altra fonte d’approvvigionamento era costituita dall’enorme cisterna, sita al centro dell’atrio interno del Collegio di Maria, gestito dalle suore.


Allesticuttunina (Confezionatrice di coperte)
Era un lavoro svolto esclusivamente dalle donne che confezionavano cuttunine (coperte di cotone), trapunte che facevano parte integrante del corredo nuziale. Il lavoro veniva svolto nel seguente modo: le lavoratrici, di solito due, dopo aver steso su un grande tavolo o sul pavimento una prima stoffa rasata, di colore comunemente giallo, ricoprivano tale stoffa con uno strato spesso e uniforme di cotone oppure di lana, quindi vi sistemavano sopra un’altra stoffa di color rosso e poi iniziavano la cucitura a mo’ di trapunta. Questo lavoro era molto apprezzato e anche ben pagato, perché era molto faticoso. Le lavoratrici, infatti, svolgevano la loro attività per molte ore giornaliere e in una scomoda posizione, spesso in ginocchio.   

Canalaru (Fabbricante di tegole e vasi di terracotta)
Fabbricava, oltre alle tegole (canali) e ai mattoni, anche brocche di varie forme e dimensioni: quartari, lanceddri, lanciddruna, lanciddruzzi, bummuli, bummuliddra, bummuluna, giarri, giarriteddri, giarruna, boccali (baccareddri e baccaruna), fiaschi (sciaschi, sciaschiteddri) e altri oggetti come salvadanai (carusi e caruseddri), lucerne (spicchi), scolapasta e infine vasi (grasti, grastuddri) di tutte le dimensioni e lemmi (contenitori ampi di forma cilindrica). La materia prima era la creta, che era di due tipi: uno scuro (crita nivura) e uno chiaro (crita bianca). La creta veniva prelevata dai torrenti che scorrevano nelle immediate vicinanze del paese, mentre le fabbriche (stazzuna) si trovavano nella periferia. Per fabbricare le tegole si usava mescolare alla creta sabbia o paglia, che davano più consistenza al composto. La creta, prelevata dagli argini del torrente, veniva sistemata in casse di legno e quindi, a dorso d’asino, veniva trasportata sul luogo di lavorazione, dove era ammucchiata e poi stesa ad asciugare. Al momento opportuno era sistemata in piccoli fossi, impastata e, quindi, rimessa nel mucchio. A questo punto la creta era pronta per la realizzazione d’oggetti vari: tegole, mattoni, etc. che poi venivano cotti al forno. Oltre ai predetti oggetti venivano realizzati anche numerosi contenitori per i liquidi, soprattutto per l’acqua, utilizzando il tornio. La creta, resa particolarmente pastosa da una lunga lavorazione, fatta anche a mano, e raggiunta la giusta consistenza, veniva utilizzata per la fabbricazione degli oggetti per mezzo del tornio e delle abili mani degli artigiani. Una volta pronti, si facevano asciugare e, quindi, erano sistemati nel forno a testa in giù per permettere al fuoco e al calore di raggiungere l’interno, in modo tale che la cottura fosse più veloce ed efficace possibile. Il tempo di cottura variava da 14 a 15 ore, dopodiché gli oggetti, una volta raffreddati, venivano tirati fuori ed erano così pronti per la vendita. In una giornata di lavoro un artigiano poteva confezionare più di 200 pezzi. I lavori al tornio venivano svolti preferibilmente d’inverno, mentre d’estate ci si dedicava alla fabbricazione di tegole e mattoni. La merce era venduta sia in paese, sia agli abitanti dei centri vicini, da dove i compratori provenivano a dorso d’asino o per mezzo di carretti.

Conzaquartari (Riparatore di brocche e recipienti di terracotta)
Riparava giarri, quartari, piatta e fangotti. Per eseguire il lavoro si serviva di un trapano con cui praticava i buchi, attraverso i quali faceva passare un filo di ferro, con cui legava le parti spezzate. Ricopriva poi le eventuali fessure con una pasta di cemento che, dopo essere stata spalmata, veniva ben levigata. L’attività di conzaquartari veniva svolta anche dalle donne. È rimasta impressa nel ricordo di molti cattolicesi la figura di un’anziana donna la za Giuvannina conzapiatti, che munita d’attrezzi era solita girare per le strade del paese per svolgere il suo lavoro. È rimasta in attività fino agli anni ’60.

Carritteri (Carrettiere)
Fino ad un decennio fa, per le strade del paese si vedeva in giro lu zu Saru, che con il suo carretto andava vendendo frutta e verdura. Era l’ultimo esemplare di carretto esistente, mentre una volta in tanti esercitavano il mestiere di carritteri e con il proprio mezzo trasportavano i prodotti agricoli e le merci varie da un luogo all’altro. La giornata lavorativa del carrettiere si svolgeva dall’alba al tramonto. Di buon mattino si accudiva al mulo o al cavallo (in qualche caso all’asino), strigliandolo per bene e dandogli da mangiare. Dopo avere imbrigliato l’animale al carro, lo si caricava della mercanzia, preparata il giorno prima, e il carrettiere partiva per il suo lungo viaggio. Durante i tragitti, i carrettieri erano soliti cantare le canzoni popolari più in voga. Quando il viaggio durava più di un giorno, si fermavano nel funnacu (fondaco) dove trovavano da mangiare e dormire, nonché una stalla per il proprio cavallo. Uno di essi a Cattolica si trovava in piazza Roma, nell’angolo tra il mulino e il palazzo baronale, attualmente abitazione della famiglia del prof. Francesco Borsellino. I fondaci erano dei posti dove i cavalli potevano riposare ed erano accuditi da uno staddraru (stalliere). Il carrettiere per questo servizio, per il vitto e l’alloggio e per un’allegra conversazione pagava una somma modesta. I carretti si compravano a Porto Empedocle o a Palermo, dove c’erano delle botteghe artigianali molto famose. Il lavoro di manutenzione giornaliero dei carretti consisteva nel lubrificare il mozzo, cioè la parte centrale dell’asse, e nell’ungere le ruote con un grasso speciale. Questo lavoro serviva a mantenere i bulloni che stringevano le ruote sempre oleati. Il carretto aveva bisogno, altresì, di molta pulizia e cura nel periodo estivo, quando il legno doveva essere costantemente bagnato per impedirgli di restringersi per il troppo caldo. I carretti venivano adornati solo nei periodi di festa o durante le fiere. I disegni delle spalliere raffiguravano episodi della guerra tra cristiani e saraceni e delle imprese eroiche dei paladini: Orlando e Rinaldo, dei cavalieri della Tavola Rotonda e di San Giorgio.

Carruzzinaru ognuri (Cocchiere)
Fino al 1955 il nostro paese era collegato alla stazione ferroviaria per mezzo di una carrozza, il cui proprietario, nonché conduttore, veniva chiamato lugnuri (signore). La sua attività si svolgeva quasi esclusivamente nel tratto di strada che collegava il paese alla stazione, da dove lugnuri, prelevati i viaggiatori, li trasportava a Cattolica e viceversa. La sua attività era importante in un periodo in cui non esistevano macchine private e gli autobus di linea, che erano piuttosto limitati, avevano orari non corrispondenti a quelli del treno.
      

Cartiddraru (Cestaio)
Confezionava, usando delle canne verdi e ancora tenere, panieri di diverse dimensioni panara e panareddri, ceste carteddri, canestri gistri e, usando, invece, le foglie tenere della palma nana, coffi, zimmila, scupi e scuparini.

Filatrici (Filatrice)
Prima di essere filato, il cotone, la cui coltura un tempo era molto diffusa a Cattolica, era ripulito del seme e della carcocciula (buccia) e anche delle pampineddri (foglie). Poi era sistemato, poco per volta, nel fuso e veniva filato. Lo stesso procedimento era usato per la filatura della lana. In seguito, al fuso venne sostituita una macchinetta, simile alla macchina per cucire fornita, però, di due ruote, una più grande sistemata sotto ed una più piccola sistemata sopra. Il movimento delle ruote veniva regolato dal piede della lavoratrice. La filatrice, spesso era anche lavoratrice di lana e filo, confezionava indumenti come: sciarpe, calzettoni, giacche, maglioni (suveri), usando gli aghi e il filo di lana, oppure l’uncinetto e il filo di cotone per confezionare coperte, tovaglie, centri e altro.

Firraru (Fabbro)
Fino a poco tempo fa esisteva a Cattolica Eraclea una bottega di fabbro, intesa alla vecchia maniera, cioè come bottega artigianale in cui il firraru svolgeva il suo lavoro servendosi della forza delle braccia e non di strumenti meccanici. Anticamente gli strumenti principali erano: la forgia, l’incudine e il martello. Con questi attrezzi il fabbro lavorava il ferro, realizzava i ferri per gli animali da soma, gli aratri e tanti altri utensili necessari agli agricoltori. Questi ultimi, quando ritornavano dalla campagna o a causa del mal tempo restavano in paese, si recavano dal fabbro per fare sistemare o cambiare i ferri ai propri animali e per curar loro piccole ferite. A cominciare dal 1980 le poche botteghe di fabbro rimaste, lentamente si sono trasformate in officine meccaniche, che producono laminati vari. 

Issaru (Gessaio)
Lavorava la pietra gessosa, molto diffusa nel nostro territorio. Le numerose cave, erano ubicate nelle immediate vicinanze della periferia del paese. Una cava molto imponente era sita nei pressi della collina di San Calogero, ai piedi della quale si trovavano parecchie fornaci, chiamate carcari, di cui esistono ancora i ruderi, che andrebbero protetti con maggiore cura possibile. Altre cave si trovavano nelle contrade: Balate e Fontanella. Il lavoro del gessaio consisteva nel frantumare parte della collina con l’aiuto di polvere da sparo o dinamite (mine) e nel porre la pietra gessosa nei forni per cuocerla. La carcara era formata da due ambienti, di cui quello interno serviva alla cottura della pietra, mentre quello esterno era utilizzato per la raffinazione. Il lavoro si svolgeva nel seguente modo: dopo che i blocchi erano stati sistemati a mo’ di focolare, si introduceva nel centro della paglia grezza che, bruciando lentamente per almeno 48 ore, provocava la cottura della pietra. Dopo che questa si era raffreddata, veniva prelevata blocco per blocco e trasportata nella prima camera, dove era pestata con una grossa mazza e ridotta in polvere. Il trasporto del prodotto finito dalle calcare ai magazzini anticamente avveniva a dorso d'asino, successivamente con carretti e automezzi vari.


Lampiunaru (Lampionaio)
Si occupava dell’accensione e della manutenzione dei lampioni, situati nei cortili e nei quadrivi, quando nel nostro paese non era ancora in funzione la corrente elettrica. I lampioni venivano alimentati con il petrolio; sul far della sera il lampionaio li accendeva, uno per volta, servendosi di una scala. Quando il petrolio stava per finire, aggiungeva la quantità necessaria per durare tutta la notte. La mattina presto li spegneva.


Lavannara (Lavandaia)
Lavava la biancheria per conto terzi, anticamente recandosi a fare il bucato al torrente, esistente in via Pero di Giulio, oppure in quello che scorreva alla funtaneddra o addirittura in località Banura, e, a volte, anche al fiume Platani. Le lavandaie strofinavano i panni su una pietra e come detergente usavano la scibbina, una polvere ricavata dalle bucce delle mandorle bruciate, che, pur essendo cenere, si rivelava un ottimo sapone. A volte, in mancanza di meglio le lavandaie usavano la creta bianca che si trovava vicino ai torrenti (vaddruna). Il loro lavoro era molto pesante e veniva retribuito in natura, cioè con modeste quantità di pasta, frumento, farina ed altro.


Mastru d’ascia (Falegname)
L’attività di questo artigiano, un tempo molto intensa ed impegnativa, in questi ultimi anni ha attraversato un periodo di grave crisi, che prelude alla sua prossima scomparsa. Una volta il falegname realizzava dietro richiesta: porte, finestre, tavoli, suppellettili e tutti i mobili per arredare una casa. Svolgeva il suo lavoro, non con l’aiuto di macchine elettriche, ma servendosi di strumenti caratteristici come: sega, pialla, martelli ed ascia, da cui gli derivava l’appellativo di mastru d’ascia. Il falegname nel nostro paese esplicava, inoltre, l’attività di vuttaru (bottaio), consistente nel costruire le botti o nel rimetterle a posto, sostituendo le parti logore. Questo lavoro era effettuato, principalmente, nei giorni che precedevano la vendemmia. 


Riparazione e preparazione delle botti

Messaggeri o ruffianu (Paraninfo)
In un tempo in cui i matrimoni erano combinati o i giovani non avevano la possibilità di dichiararsi personalmente alla propria ragazza, il messaggeri svolgeva un ruolo molto importante, poiché combinava i matrimoni. La sua presenza era indispensabile quando, in occasione dell’appuntamento (fidanzamento ufficiale), si riunivano i familiari dei due promessi sposi e anche i parenti e gli amici più intimi per la canuscenza. Il momento più importante era quello in cui il futuro sposo metteva l’anello alla ragazza, cui si donavano tanti altri regali, come, per esempio, una collana e un fazzoletto di seta, che era considerato molto importante. Ufficialmente il messaggeri non percepiva alcun pagamento, ma di certo riceveva dei regali e, se si trattava di una donna, il regalo consisteva in una vistina (vestito elegante), che era indossata in occasione del matrimonio dei promessi sposi. 
Mulinaru (Mugnaio)
A Cattolica Eraclea esistevano diversi mulini e qualcuno anche fuori paese. Si trattava di antichi mulini ad acqua, di cui uno era situato a circa un chilometro dal centro abitato, in contrada Santa Maria. Veniva utilizzata l’acqua che scendeva dalla Saia (dietro l’attuale abbeveratoio). Un altro si trovava addirittura alla Giudecca e sfruttava l’acqua del torrente Jazzo Vecchio, un affluente del fiume Platani. La gente si recava a macinare il grano a dorso di mulo, oppure d’asino. In seguito questi mulini vennero soppiantati da quelli cosiddetti a pietra, alimentati da energia termoelettrica. In paese ne esistevano diversi, di cui uno era ubicato in Piazza Roma. Un altro mulino era ubicato nel cortile Immacolata e un altro ancora, il più recente e in funzione fino a pochi anni fa, in via Oreto.
Il grano veniva macinato da una grande e pesante ruota di caninaru (pietra molto dura), poi veniva ripulito (cirnutu) per mezzo di un cirnituri , che divideva la farina dalla crusca (caniglia) e dalla farina grezza (ranza).  La farina serviva per fare il pane, la ranza, invece, veniva utilizzata per le pizze rustiche (caddriati) e per la cosiddetta (arriminata), una specie di semolino che veniva dato ai bambini.

‘Ncagliacani (Accalappiacani)
Svolgeva la sua attività soprattutto durante l’estate o nei periodi in cui il numero dei cani randagi aumentava e c’era il pericolo che qualche animale fosse colpito da idrofobia. Girava per le vie del paese munito di un apposito attrezzo, consistente in una robusta verga culminante in una corda a nodo scorsoio che, accalappiando il cane, ne rendeva quasi impossibile la liberazione. Conduceva, quindi, il malcapitato al canile comunale, dove l’animale, trascorsi tre giorni senza che fosse stato riscattato dal padrone, era soppresso mediante avvelenamento. Talvolta, il padrone del cane catturato era informato dai vicini della disavventura del suo compagno (tale era considerato il cane per l’uomo) e riusciva a liberarlo, offrendo allo zio Peppi (uno dei più famosi accalappiacani) una bottiglia di vino. Succedeva spesso che i cani, sfuggiti alla cattura oppure riscattati, riconoscendo l’accalappiacani al fiuto, si mettessero ad abbaiare non appena ne avvertivano la presenza e capitava, talvolta, che qualche grosso animale costringeva l’accalappiacani ad una precipitosa fuga.

‘Ntagliaturi (Intagliatore)
Era un abile artigiano che intagliava la pietra, utilizzata per la costruzione dei portali delle case e delle tombe gentilizie. Da una cava d’uso comune, sita in contrada Borangio, si estraeva la pietra borancina che abilissimi mastri  plasmavano secondo le necessità. Noi oggi possiamo ammirare la loro arte, osservando i portali dei palazzi baronali e delle chiese o visitando le tombe gentilizie del cimitero di Cattolica Eraclea.

Panittera (Fornaia)
In paese esistevano diversi forni gestiti esclusivamente dalle donne e soprattutto da quelle rimaste vedove, che trovavano così una sicura attività. I forni, di solito, funzionavano a legna, a volte, erano alimentati da rami di palma nana (giummarra) oppure dalla stoppia (ristuccia).  Le clienti impastavano la farina nella maiddra (madia) e lavoravano la pasta per mezzo di una sbarra di legno pesante (briuni). Quando la pasta era pronta e lievitata, venivano confezionate le forme di pane di dimensione diversa: guasteddri, pagnotti, chichiri, chichireddra e ‘u picciulu. Ogni cliente contrassegnava il proprio pane con segni di riconoscimento che potevano essere le iniziali del proprio cognome, oppure dei segni convenzionali come, ad esempio, tre linee trasversali e due puntini (///:).


Panneri (Venditore di tessuti)
Vendeva la merce per le vie del paese, trasportandola a dorso d’asino, dentro due ceste, oppure sulle spalle. Di solito si trattava di stoffe di tela d’Olanda, rigata e molto resistente, usata soprattutto per confezionar barracani (camicie), di matapolla, adatta per le lenzuola, e di toccu, stoffa resistente usata per confezionare cazi e giacchetta (pantaloni e giacca). Vendeva anche stoffe di musulinu, una mussola molto leggera, e la tila amara, una stoffa morbida e perciò adatta a confezionare indumenti intimi estivi come camicie da notte, e, infine, stoffe di fustagno, simile al velluto e molto resistente, adatta soprattutto a confezionare pantaloni. 

Paraccaru (Ombrellaio)
Oltre a vendere, riparava gli ombrelli e anche gli ombrelloni che servivano a ricoprire le bancarelle dei rivenditori. Solitamente girava per le strade del paese e bandizzava la propria merce, rivolgendosi alle massaie con il caratteristico grido: pariacquaaa… pariacquaaa!

Pastaru (Pastaio)
La pasta veniva confezionata per mezzo di un’apposita macchina. Le clienti portavano la propria farina, che poi veniva trasformata in pasta per mezzo di un torchio. Venivano realizzati diversi tipi di pasta lunga e corta, come: lasagne, tagliatelle (tagliarina), maccheroni etc. Quella lunga veniva lasciata in deposito per qualche giorno, stesa ad asciugare su delle canne, quella di piccolo formato, invece, veniva portata a casa.

Salinaru (Minatore della salina)
Anticamente il sale era estratto dalle pareti della collina di contrada Salina dagli stessi proprietari della miniera. Sistemato in piccoli sacchi, era trasportato in paese a dorso di mulo e d’asino. Il trasporto venne effettuato per un certo periodo da una donna anziana, moglie di uno dei proprietari. Il sale in pietra veniva pestato con una grossa mazza e, così raffinato, veniva venduto in paese, utilizzando un’antica unità di misura la garozza, corrispondente ad ¼ di mondello, oppure veniva trasportato (e venduto) negli altri paesi limitrofi e addirittura a Palermo per mezzo dei carretti. Successivamente il sistema d’estrazione e di trasporto venne meccanizzato e svolto attraverso martelli pneumatici e grossi camion, che trasportavano il sale a Porto Empedocle, dove veniva raffinato ed in seguito esportato. Da una ventina d’anni la miniera è chiusa a causa del crollo di una delle gallerie. Purtroppo anche questo lavoro, molto antico e molto importante per l’economia del nostro paese, è scomparso.

Sapunaru (Produttore di sapone)
Produceva il sapone con una miscela composta d’olio d’oliva e d’una polvere bianca (potassio) che acquistava al negozio. Otteneva una pasta che amalgamava per bene in un contenitore di terracotta (lu lemmi), dove la lasciava riposare per tre giorni.

Sartu (Sarto)
Quella del sarto fino al 1965 era un’attività molto praticata dagli artigiani del nostro paese, dove esistevano circa trenta sartorie, che confezionavano vestiti, giacche, pantaloni e altri indumenti per uomini, donne e bambini. Il lavoro del sarto era quasi esclusivamente manuale, svolto con l’aiuto di pochi attrezzi: metro, forbici, squadre, gesso, ditale e naturalmente ago e filo. La bottega, di solito, era situata nel pianoterra dell’abitazione del sarto ed era frequentata da tanti giovani apprendisti, che erano utilizzati principalmente nei lavori d’imbastitura e di consegna dei vestiti.

Scarparu (Calzolaio)
Questo mestiere fino agli anni sessanta era esercitato da un gran numero d’artigiani, poiché molte erano le persone che si facevano confezionare le scarpe e gli scarponi su misura. Il lavoro era tanto che li teneva impegnati anche la domenica. Il loro giorno di riposo era il lunedì. Negli anni seguenti, con lo sviluppo dei calzaturifici, questo lavoro ha attraversato un periodo di grave crisi ed oggi possiamo affermare che è in via d’estinzione. Infatti, gli ultimi calzolai, uno o due ancora in attività, si limitano ad eseguire qualche piccola riparazione alle calzature, prodotte esclusivamente dalle industrie. Un tempo svolgevano il loro lavoro utilizzando i seguenti attrezzi e materiali: il tavolo da lavoro (bancareddru), le forme, la lesina, il martello, la tenaglia, il trincetto, il cuoio, i chiodi, lo spago e la colla. 
Sciumarolu (Fiumarolo)
Svolgeva la sua attività, consistente nella pesca e nel traghettamento delle persone da una sponda all’altra, lungo il corso del fiume Platani. Per la pesca delle anguille si serviva di ceste particolari, chiamati cufineddra, dalla forma ovoidale e fornite di un’imboccatura che portava ad una camera della morte, chiamata tradituri. Le anguille che vi entravano, attratte dall’esca, di solito lombrichi, non potevano più uscire. Durante la piena avveniva la pesca più abbondante, che si svolgeva in un’ansa del fiume, dove le anguille dimoravano. Venivano pescate in tutti i mesi dell’anno, poiché questo tipo di pesce viveva preferibilmente nel fiume. In primavera e per tutta l’estate fino a settembre – ottobre si potevano pescare i cefali (muletta). Questi risalivano dal mare in primavera e rimanevano nel fiume per alcuni mesi. In estate ritornavano al mare. I cefali venivano pescati utilizzando una sostanza velenosa, ricavata da certe piante che crescevano lungo gli argini del fiume, chiamata firlazzeddru o camarruni, oppure il concime di pecora che, sparso nell’acqua, provocava lo stordimento dei pesci e ne facilitava la cattura. Nei punti dove l’acqua era più profonda e un po’ stagnante, dove di solito il pesce dimorava, veniva, invece, utilizzata una rete particolare chiamata rizzagliu, aperta da un lato e che poi veniva richiusa per catturare il pesce che, attratto dall’esca, vi era entrato. Dove l’acqua era corrente e più bassa, il pesce era catturato per mezzo della cannara, trappola formata di canne disposte una vicina all’altra a formare una barriera, che all’estremità era sbarrata da una chiusura chiamata tuppu. L’acqua attraversava la barriera e i pesci rimanevano impigliati. Nel fiume Platani un tempo si praticava anche la pesca di alosi, un tipo di pesce piuttosto grosso e che poteva raggiungere il peso di uno o anche due chilogrammi. L’unico inconveniente era rappresentato dalle spine, molto abbondanti. Un altro lavoro del fiumarolo, esperto conoscitore d’ogni tratto del fiume, consisteva nell’aiutare la gente ad attraversare il fiume nei guadi meno pericolosi, specialmente nei giorni in cui era in piena.

Siggiaru (Riparatore e costruttore di sedie).
Oltre a confezionare le sedie, riparava quelle sfondate, utilizzando dello spago e anticamente la curdeddra, un tipo di corda realizzata con le foglie più tenere della giummarra (palma nana). Lu siggiaru affittava anche le sedie in occasioni di sponsalizi o di feste varie. È rimasta famosa in tutto il paese la figura di un siggiaru, un uomo alto e robusto, che si occupava di fornire alla chiesa madre, riparare e custodire le sedie per la messa domenicale. Per l’uso di queste sedie, d’accordo con il parroco,  riscuoteva  dai fedeli una piccola tassa.
  

Stagnataru (Stagnino)
Riparava pignati, casdari e casdaruna (pentole e pentoloni) di rame, prima che si bucassero, saldandovi uno strato di stagno all’interno. Le pentole, infatti, prima che entrassero in uso quelle d’alluminio, erano di rame. Casdari e casdaruna erano utilizzati soprattutto dagli allevatori per contenervi il latte e per confezionarvi ricotta, zabbina, tuma e tumazzu (formaggio). I proprietari delle grandi masserie si servivano di questi artigiani, a volte anche per un periodo di dieci giorni, per rimettere a posto i numerosi contenitori, che possedevano e utilizzavano durante il corso dell’anno. Inoltre, lo stagnino andava girando per le strade del paese e, maliziosamente, invitava le massaie a farsi cunzari la pignata rutta.

Surfararu (Minatore della zolfara)
Estraeva lo zolfo dalla locale miniera di Collerotondo. Numerosi erano i lavoratori impegnati in questa attività. Il minerale veniva estratto per mezzo di picconi dagli adulti, mentre il trasporto all’esterno era effettuato dai ragazzi e, a volte, anche dai bambini. Questi, dopo aver sistemato i blocchi di pietra sulfurea nelle apposite ceste, trasportavano all’esterno della miniera tutto il materiale estratto e lo depositavano vicino all’imboccatura. Da qui il minerale veniva poi trasportato nella parte posteriore della miniera, dove era raffinato nei forni, ivi esistenti. Generalmente i ragazzi impegnati in questa attività erano molto giovani, di solito dai nove agli undici anni e venivano retribuiti con una paga più bassa di quella degli adulti, anche se il loro lavoro era altrettanto duro e faticoso. La crisi provinciale delle zolfare colpì anche la miniera di Cattolica, che fu abbandonata e i minatori furono costretti a cercare lavoro altrove.

Vanniaturi (Banditore)
Svolgeva la sua attività per le vie del paese, annunciando ad alta voce le ordinanze del Sindaco o del Governo. Si sistemava preferibilmente nei quadrivi, da dove la sua voce poteva arrivare a tutti gli abitanti del quartiere. La funzione del banditore era indispensabile in un periodo in cui gli avvisi non erano pubblicati attraverso manifesti o giornali, non esisteva ancora la televisione e la radio era un privilegio di pochi. D’altronde la maggioranza della popolazione era allora analfabeta e, quindi, poteva essere informata soltanto a voce. Capitava spesso che si rivolgessero al banditore le persone che avevano smarrito o trovato qualche oggetto, come per esempio una chiave o altro.  


Vardiddraru (Sellaio)
Tale attività venne svolta nel nostro paese fino alla metà degli anni cinquanta. Si trattava di un lavoro molto importante in un periodo in cui, essendo il nostro paese prettamente agricolo, gli animali da traino e da soma, soprattutto muli ed asini, erano molto numerosi. I materiali usati erano la canapa e la lona, con cui venivano confezionati: bisacce (visazzi, vertuli), le coperture delle selle (siddruna), ricoperte con la pelle di maiale, opportunamente trattata. Oltre a questi oggetti, il sellaio confezionava: capizzuna (capestri), sacchini (sacche), cinghie per le bestie, che  rifiniva con strisce di cuoio.





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