LA COLLINA DELLA GIUDECCA
LA COLLINA DELLA GIUDECCA
Il sito della Giudecca merita una dettagliata descrizione per
l’importanza che ha rivestito nella fondazione del Comune di
Cattolica. La collina si eleva sopra il livello del mare 322 metri.
Sorge sulla riva sinistra del Platani nel punto in cui il fiume
s’incontra con il torrente Jazzo Vecchio (un tempo chiamato
Acragante). Essa rappresentava il crocevia per chi da Sciacca voleva
raggiungere Sutera. Una vecchia strada poderale, in parte ancora
esistente, partiva da Sciacca, passando per la contrada Montesara,
territorio di Ribera, giungeva nel feudo di Monforte o Platani
(contrada Judeca) e a Platano si biforcava. Una bretella attraversava
il feudo Salacio e la contrada Giardina (Giardat?) e giungeva a
Sant’Angelo Muxaro (Minsciar o Mushar) e proseguiva fino a Sutera
(Sotir). L’altra, lunga 20 miglia, attraversava il feudo Qattà,
passava per Cathal e giungeva a Girgenti. Partendo da
Platano, chi voleva raggiungere una delle predette località,
necessariamente doveva percorrere la strada anzidetta.
Oggi si può raggiungere la collina della Giudecca da due punti
diversi: Partendo dalla contrada Fornazzo e costeggiando il fiume
Platani, oppure percorrendo la strada che da Cattolica porta in
contrada Alvano prima e successivamente in contrada Judeca.
Percorrendo quest’ultima, ho avuto il piacere di accompagnare
l’archeologo Ferdinando Maurici in un’escursione sul monte della
Giudecca. Il predetto studioso in un suo articolo così descrive la
località visitata:
Monte della Giudecca è una
località archeologica nota fin dal secolo passato. L’altura si
erge su una larga ansa del fiume Platani e, sebbene di altezza
modestissima (322 m.), ben si presta ad un insediamento fortemente
condizionato da esigenze di sicurezza. Il monte è, infatti, un vero
e proprio bastione naturale, protetto da ripide pareti ed accessibile
solo attraverso un varco sul fianco orientale e, con grandi
difficoltà, da uno stretto canalone a NE. La sommità è costituita
da un vastissimo piano inclinato degradante con una leggera pendenza
verso N-NO. Questa superficie era in grado di offrire spazio ad un
insediamento di grandi dimensioni. Attualmente l’area è utilizzata
saltuariamente per pascolo. Più spesso come testimoniano numerose
buche nel terreno, la località è stata visitata da scavatori
clandestini.
L’accesso principale,
quello sul versante orientale del monte, appare difeso da un muro che
corre per ca. 250 m. in direzione SE-NO, dal ciglio della parete a
picco ad un brusco rialzamento del pendio. La terrazza più elevata
del monte (le sue dimensioni sono di circa 80 metri in senso SO-NE e
40 in direzione SE-NO) è protetta da una cinta muraria con almeno
due torri che corre sui lati O e N. Il versante SE è già
sufficientemente protetto dallo strapiombo. La cinta, piuttosto
rovinata, sembra del tipo ad aggere ed è costituita da un paramento
di pietre locali appena sbozzate e da qualche blocco squadrato di
pietra tufacea. Altri blocchi squadrati di tufo si ritrovano inoltre
qui e lì, sparsi per tutto il sito. Sul vertice della terrazza
sommitale esistono i resti di una costruzione, forse una torre. Tutto
il vasto pianoro che si estende a N e O della terrazza appare
punteggiato da frammenti di ceramica e tegolame. Le tegole
appartengono ad almeno due tipi: coppi ad impasto poroso dovuto alla
presenza di paglia triturata, ben noti nei contesti siciliani di
XI-XIII secolo, e coppi a superficie decorata da striature parallele
incise a pettine, definiti normalmente “bizantini”. La classe più
omogenea di ceramica è l’invetriata monocroma verde che rimanda
alla fine del XII secolo, prima della metà del XIII. Tutta la
ceramica diagnostica si inquadra comunque in età medievale e
sembrerebbero mancare reperti più antichi. 1
Fin dai secoli scorsi Diego Miceli e Giovanni Caruselli avevano
identificato il sito di un’antica fortezza sul colle della
Giudecca. Dalle testimonianze storiche dell’Amari e del Fazello
avevano appreso che:
La formidabile città di
Platani sorgeva sulla cima del monte stagliato e dirupato d’ogni
banda a 8 miglia da Eraclea Minoa. Al monte si sale per una sola
strada ch’è uno stretto passo custodito da tre fili di mura ovvero
da un superbo fortilizio. 2
Il monte della Giudecca era l’unico del feudo di Monforte o
Platani a rivestire le caratteristiche indicate. I cocci di ceramica,
le monete, le mura di un castello e le abitazioni diroccate, che si
trovavano sulla collina, confermavano la loro ipotesi e, pertanto, i
predetti studiosi conclusero che il sito di Platano non poteva essere
che sul colle della Giudecca.
La città di Platano è citata come inespugnabile fortezza bizantina,
che tra il X e l’XI secolo ebbe un ruolo non secondario nelle lotte
tra gli Arabi per la conquista dell’isola e tra Arabi e Normanni
per il predominio. Inoltre, è ricordata da Idrisi come fortezza
(hisn) ulteriormente munita di una roccaforte (ruqqah).3
Giovanni Caruselli ha ipotizzato che il nome Platano derivasse dal
greco Platanos, cioè a dire plataneto. Questo nome e i suoi
derivati, come Platanella e Platanelli, (secondo l’uso del tempo
che dava ad una parte del feudo il nome al diminutivo), sono stati
introdotti durante la dominazione bizantina della Sicilia.
Sull’odierna collina della Giudecca i musulmani trovarono:
Una città appellata Platanos. La più recente moneta di rame
rinvenuta sulla Giudecca è dell’imperatore bizantino Michele III
(842-866 d. C.), l’ultimo che regnò in quella parte dell’isola.
4
Una dettagliata descrizione della città è stata fatta
da Idrisi nel 1154: Il
castello di Platano è abitazione in sito alto, dominato da
un’eccelsa rocca e superbo pinnacolo; discostasi dal mare sei
miglia all’incirca. Platano, superbo fortilizio sito in alto,
terreni di seminagione ed abbondanti prodotti agrari; ha molti orti e
alberati e frequente popolazione, sia fissa che avventizia. Da
Sciacca a Platano 17 miglia. 5
L’esatta
localizzazione della città di Platano, indicata dagli storici
distante da Eraclea Minoa circa 6-8 miglia,6
ha fatto nascere un’accesa disputa tra gli studiosi del passato.
Iniziò a discuterne Michele Amari, che ipotizzò l’esistenza di
Platano sul colle Montesara, un rilievo che sorge ad Ovest del corso
del fiume Platani. Quest’ipotesi, successivamente messa in dubbio
dallo stesso Michele Amari, fu fatta propria da Gaetano Di Giovanni.
Di parere discordante fu Giovanni Caruselli, che identificò il sito
di Platano sul colle della Giudecca. Il Caruselli era un esperto
conoscitore dei luoghi, essendo nato e vissuto a Cattolica Eraclea,
e, pertanto, dopo avere effettuato delle ricognizioni sia sul
Montesara che sulla Giudecca, fu in grado di escludere l’ipotesi
del Di Giovanni e dare valore scientifico alla propria.
La disputa continuò a lungo e Gaetano Di Giovanni rispose a
Giovanni Caruselli:
Con un astioso e polemico
libello (Il Kal’at Iblatanu), ribadendo le proprie conclusioni
ancora una volta in modo poco convincente, soprattutto in mancanza di
qualsiasi riscontro archeologico. L’erudito insisteva specialmente
sulla testimonianza di Idrisi che aveva posto il corso del Platani ad
est della fortezza, condizione apparentemente rispettata da Monte
Sara ed altrettanto apparentemente negata da Monte della Giudecca.
Dal canto suo Caruselli tornò qualche anno dopo a ribadire le
proprie conclusioni, questa volta senza neanche darsi pena di citare
direttamente l’avversario (G. Caruselli, Sulla storia della
Sicilia, pp.14-26). Nonostante tutto, però, l’identificazione di
Platani con Monte della Giudecca venne accolta soltanto, e non senza
perplessità, da Salvatore Raccuglia (Camico, pp.56-57); mentre
Ignazio Scaturro (Storia della città di Sciacca, I, p. 309) e lo
stesso Carlo Alfonso Nallino (St. Mus. III, p.617, nota 3),
tributarono un poco meritato omaggio a Di Giovanni, accogliendone le
mal fondate tesi. Più di recente, Monte della Giudecca è stato
oggetto di una rapida ricognizione da parte dell’archeologo E. De
Miro che vi ha segnalato l’esistenza di un centro fortificato,
senza però avanzarne una datazione né, tanto meno,
un’identificazione (cfr. P. Griffo, Sull’identificazione, p.77,
nota 1). L’ipotesi di Caruselli sembra, invece, pienamente
dimostrata dalle ricognizioni effettuate su Monte della Giudecca e
Monte Sara da F. D’Angelo, J Johns (Cenni in Monte Guastanella,
p.33, e comunicazioni personali) e da V. Giustolisi (Camico, p.113 e
Introduzione a F. Maurici, L’emirato sulle montagne, pp.12-20). A
V. Giustolisi si deve anche la constatazione, immediata ma non priva
d’importanza,, dell’ubicazione di Monte della Giudecca su un’ansa
del fiume Platani che, quindi, scorre tanto ad est che ad ovest del
rilievo, venendo così rispettata l’indicazione fornita da Idrisi
(Camico, p.113). 7
Un altro studioso, che si è occupato del colle della Giudecca, è
stato Giuseppe Otto. Nel suo dattiloscritto Cattolica Eraclea ed i
suoi dintorni ha descritto la via d’accesso alla sommità del
colle e gli interessanti rinvenimenti effettuati:
La
salita, oggidì la più frequentata perché la più corta, comincia
presso la casa Fornazzo laddove il fiume Jazzo Vecchio sbocca nel
Platani, s’arrampica sul monte serpeggiandolo ed arrivata
sull’altipiano attraversa un taglio cavato apposta nell’orlo
della pianura per collocarvi una
grande cisterna, adesso colmata con pietrame.
Questo fatto prova che il sentiero è di recente costruzione.
L’antico unico accesso venne dalla vecchia trazzera Cianciana –
Cattolica e la mulattiera, prima di arrivare alla casa Giudecca,
passava per un taglio formato da due grosse e basse mura a secco, non
databili, fatte di pietrame di media grandezza raccogliticcio, ed era
fiancheggiata da due torri rotonde, le fondamenta delle quali si
possono ancora vedere. Il campo davanti questo taglio serviva una
volta per seppellire i morti e dappertutto compaiono le
ossa di non si sa quale popolo, perché là manca ogni corredo
funebre.
Comunque fu sempre una superstizione dei popoli antichi quella di
credere che le ombre dei morti spaventassero il nemico aggressore, e
perciò mettevano i loro morti a guardia delle mura. Anche la casa
Giudecca è notevole. Le
mura massicce portano delle volte a botte ed il pavimento è fatto da
ciottoli fluviali di vari colori che formano un disegno geometrico.
Tutto questo ci fa ricordare le belle ville romane. Le due grosse
mura summenzionate cingevano un’area arativa e nel fondo era
l’unica entrata nella fortezza, anche cinta quella da mura
costruite da grossi blocchi irregolari, l’ingresso stesso
fiancheggiato da un lato dalla acropoli, dall’altro da un declivio
ripidissimo. È questo il punto il più stretto dell’accesso alla
fortezza ed al quale accenna la leggenda quando dice: “Nel
territorio ora agrigentino, al Camico, edificò (Dedalo) sulla roccia
una città, salda più che ogni altra, da non potersi prendere con la
forza; vi fece artatamente un accesso così stretto e tortuoso, da
potere essere facilmente difeso da tre o quattro persone; perciò
Kokalos vi stabilì la sua reggia e vi custodì le sue ricchezze, e
la ritenne imprendibile per l’abilità dell’artefice.8
Negli ultimi anni Angelo Cutaia, sulla scorta di quanto sostenuto da
Giacomo Spoto 9,
ha affermato che la città di Platano si trovava sul Collerotondo e
non sulla Giudecca. Per non trascurare nulla riportiamo quanto
affermato dall’autore dell’Itinerario arabo Normanno Sutera
Agrigento:
Monte della Giudecca non è
Plàtanu – Se Plàtanu fosse sul monte della Giudecca, Platanella
(alias Mongiovì) si dovrebbe trovare limitrofa e più bassa, meno
imponente, rispetto al monte di cui porta il diminutivo. Invece dista
dalla Giudecca circa sei chilometri e fra essi è l’altura di Monte
Sorcio che, sulla loro congiunzione essendo alto 420 metri, ne
impedisce la reciproca visione. Inoltre attorno al monte della
Giudecca sono monti più elevati che gli fanno corona e lo
sottraggono alla vista, nessuno dei quali può essergli associato in
rapporto di soggezione altimetrica o dimensionale. Monte della
Giudecca dista dieci miglia dalla foce del Fiume (Capo Bianco) e non
sei. Si trova a venti miglia da Sciacca e non a diciassette. Non può
descriversi come eccelsa rocca né come crescente pinnacolo poiché
la sommità è costituita da un vasto pianoro dal perimetro superiore
al miglio. Inoltre i suoi immediati dintorni sono inospitali, aridi,
quasi sterili, non coltivabili ad orti e frutteti. Essendo
accidentati, non presentano quelle caratteristiche di pervietà
necessari ad accogliere una trazzera di lunga percorrenza, quale
doveva esserci in un posto con frequente popolazione sia fissa o
avventizia. Infine il sito è discosto dall’attraversamento della
strada Agrigento – Sciacca che si trova più a valle, e non vede il
mare. Insomma la non corrispondenza delle sue caratteristiche
orografiche, topografiche ed agricole con quelle di Idrisi e Fazello
mi fa dubitare fortemente che possa corrispondere al Plàtano dei
testi. Il grosso abitato fortificato sarà stato uno degli ultimi
ridotti saraceni, ingrossato di popolazione durante gli anni finali
della ribellione. La fortificazione sommitale era in contatto visivo
con la fortezza di Rocca Motta e indirettamente col castello di
Girgenti, tramite una fossa del fuoco ancora esistente sulla cima del
monte Giafaglione. 10
Un’osservazione di carattere storico-geografico ci convince sempre
di più che la fortezza sul colle della Giudecca deve essere
identificata con Platano. Il Fazello nella sua opera sulla storia di
Sciacca, trovandosi a girovagare per la bassa valle del Platani,
afferma di aver visto su una collina (Collerotondo) tra:
Pecuraro (Montesara) e
Platanella(Mongiovì) una gran città rovinata (probabilmente Ancyra
sul Collerotondo) e poco di sopra in un colle tutto intagliato
intorno, che da man destra è bagnato da fiume Lico, (anch’esso
chiamato monte Platanella) si vedono le meravigliose rovine di una
città, la quale era un
miglio di giro e non
si poteva andar se non da una via. E poco lunge queste fortezze:
Guastanella, La Motta e Mussara di nome saracino, le quali furono
prese nel corso delle sue vittorie da Ruggiero, conte di Sicilia.
11
La città fortezza che insiste sul monte della Giudecca ha le
seguenti caratteristiche che gli storici attribuiscono a Platano:
1°) Si trova su un’ansa del fiume Platani che, quindi, scorre
tanto ad est che ad ovest del rilievo, venendo così rispettata
l’indicazione fornita da Idrisi 12
e s’incontra dopo Collerotondo (la collina posta tra Montesara
e Platanella, su cui è stata vista la grande città rovinata di
Ancyra), chiamata secondo il Fazello pure Platanella
(probabilmente Platana o Platanos) e prima delle fortezze
di Missar o Minsciàr (Mushar di monte Castello), Guastanella e La
Motta.
2°) Le mura della città circondavano un vasto pianoro di circa un
miglio di lunghezza (cosa che non era possibile per il pianoro in
cima a Collerotondo di mq. 1800-2000, mentre lo è per quello della
Giudecca).
3°) Sul promontorio, risalendo il fiume, si poteva salire da un solo
stretto viottolo, come oggi si continua a fare per la Giudecca e non
per Collerotondo, facilmente accessibile da diversi punti.
4°) Il castello, che precede ed è più vicino (poco da lunge)
alle fortezze Mussara (Sant’Angelo Muxaro), Guastanella, la Motta è
quello di Monte della Giudecca. Se si fosse trattato del castra
di Collerotondo, l'autore avrebbe dovuto citare quello della Giudecca
di maggiore dimensione e più fortificato, che lo segue e precede le
fortezze anzidette.
5°) Platano resistette per lungo tempo all’assedio, riuscendo ad
approvvigionarsi dell’acqua necessaria attingendo a dei pozzi, che
abbiamo ritrovato sulla Giudecca,13
ma non sul Collerotondo.
6°) I reperti archeologici trovati nella parte centrale di
Collerotondo, idonea per un insediamento notevole, risalgono al IV
secolo avanti cristo e depongono in favore di Ancyra.
7°) Il colle Stracciazza o Casotta venendo da Eraclea s’incontra
prima di Montesara e Platanella, dista meno di sette miglia dalla
foce del Platani, non presenta ruderi tali da far pensare ad un
grande insediamento e, pertanto, non può essere il sito della gran
città rovinata vista dal Fazello.
Per finire, confortato dagli studi degli storici che mi hanno
preceduto e dalle constatazioni personali, eseguite in compagnia di
Ferdinando Maurici e i componenti del progetto Dialogos, credo che si
può ragionevolmente affermare che Platano si trovava sul colle della
Giudecca. Per fugare ogni ulteriore dubbio, occorrerebbe promuovere
un’indagine approfondita sulle due fortificazioni, che, sono certo,
consentirebbe il ritrovamento degli elementi mancanti a comporre
l’intero mosaico.
SCHEDA RIASSUNTIVA SU PLATANO
Dati certi
Si trovava nel feudo Monforte o Platani sulla riva del fiume, in una
delle due colline Collerotondo e Giudecca che presentano ruderi di
fortificazioni medievali.
Il feudo di Monforte nel 1645 era così delimitato: dal fiume
Platani che segnava il confine con i territori del comprensorio di
Sciacca; dai feudi Borangio, Aquileia, Cattà, San Giorgio, Jazzu
vecchiu; dalla Terra di Montis leti (Montallegro) e suoi feudi e dal
mare.
Il feudo era composto dai seguenti suffeudi: Vizzini,
Piana dello Bammuso, Piana del ponte, Gurgo di Marzo, Ardicola,
Mortilla, Monaca, Salina, Alvano, Judica (Giudecca), Ingastone,
Maniscalco (Collerotondo e Platanella).
Ruderi di castra o casali sul: Collerotondo
dimensioni modeste; sulla Giudecca dimensioni più grandi; sulla
collina di Punta di disi piccole dimensioni; sul Principotto o
Monforte una rocca, da cui si domina tutto il feudo, ed alcuni
casalini.
Dati probabili
Da Edrisi apprendiamo che: Il percorso di questo fiume dalla
sua origine fino al mare è lungo 50 miglia.
Da Sciacca a Platana diciassette miglia.
Da Platano a Girgenti circa 20 miglia.
Da Platana si va a Gardata o Gardutàh ( Giardat o alla gran
Pianura contrada Giardina di Sant’Angelo?) verso Oriente; da
Gardata a Al Minsciar (Mushar) e quindi a Sotir (Sutera). Al Minsciar
o Mishar è il Mussaro di Sant’Angelo Muxaro. Quindi, il tragitto
poteva essere: da Sciacca a Platano ( Giudecca), a Minsciàr e
Gardata (in territorio di Sant’Angelo Muxaro), e si arrivava a
Sotir (Sutera.) Il Picone per il tragitto Sutera - Agrigento
ipotizza: Da Sutera a Minsciàr o Mushar o Mussaro (Sant’Angelo
Muxaro -), attraversando i feudi Salacio e Iazzu vecchiu-Giudecca si
passava per Platano e dopo circa 8 miglia ad Al Qattà tra Raffadali
e contrada San Giorgio, che distava da Girgenti circa 12 miglia.14
Insediamenti testimoniati dai reperti
Collerotondo (m. 262): insediamento abitativo del IV secolo a.
C. in media collina; fortezza medioevale in cima di carattere
militare, probabile posto di guardia.
Giudecca (m. 322): castello medioevale in cima, con
insediamento abitativo arabo- giudaico nel pianoro sottostante.
Rinvenimenti archeologici
Il monte della Giudecca è sempre stato visitato da studiosi e
ricercatori, tra cui Diego Miceli, Giovanni Caruselli, Ernesto De
Miro, Otto Giuseppe, Ferdinando Maurici, Maria Serena Rizzo, Maurizio
Paoletti con la sua equipe di archeologi e studenti (progetto
Dialogos a cura del prof. Damiano Zambito) ed altri, che hanno
scoperto tracce visibili e reperti risalenti a diverse epoche:
sicana, greco-romana, bizantina, araba, normanna e giudaica.
Uno dei primi ad occuparsi del sito è stato l’agrimensore Diego
Miceli (1780-1878), autore dell’opera storica “Cenni sopra
Cattolica”, oggi introvabile, in cui ha affermato che:
Essere sopra la
Giudecca rottami di vasi e di tegole e monete antiche. Il colmo del
colle è inaccessibile da tutte le parti all’infuori da uno stretto
passo all’Est che era chiuso da tre fili di muro e quindi ben
custodito. … Nel secolo scorso alla Giudecca fu rinvenuto il
cadavere di un uomo con la spada a fianco. Questo era usanza tanto
dei Greci che dei Romani. …Evvi nella parte più elevata di questo
monte gli avanzi di un edificio di arte affatto barocca. Di esso
conservasi ancora le basi, su cui s’innalza qualche metro di muro…
Sono gli avanzi del tempio di Venere o di altro edificio? Questa
rovina è purtroppo adesso distrutta e restano soltanto sul luogo dei
belli blocchi di arenaria, accuratamente tagliati rettangolari. base
di una coppa,
rinvenuta sull’acropoli. Questa iscrizione data secondo la grafia
dal IV secolo a. C. 15
Il prof. Ernesto De Miro, sovrintendente ai beni culturali ed
ambientali della provincia di Agrigento per tanti anni, oltre che
insigne studioso, avendo eseguito appropriate indagini sulla predetta
collina, tra le altre cose, afferma che:
Sul fianco settentrionale si
conserva un
tratto della cinta muraria, a tecnica di piccole e irregolari assise
di gesso (come in molte parti di Eraclea Minoa);
dietro a questo, sulla cresta di una balza più elevata, altra
fortificazione della stessa tecnica ne circuisce i lati di nord e di
est. Sull’alto del monte, l’ampio pianoro che lo corona è tutto
difeso in giro da muri e torri; il lato meridionale strapiomba a
picco sul vallone sottostante. Il terreno è sparso di pietre e
cocciame. 16
Lo studioso austriaco Giuseppe Otto ha accuratamente visitato il
monte della Giudecca ed ha potuto costatare che:
L’altipiano davanti
all’acropoli è pieno di cocci e si può vedere le fondamenta di
piccole case quadrate. Era qui il centro
della città araba,
perché là si trova la maggior parte della ceramica
araba, rotta
in piccole schegge. Ma giustamente appié dell’acropoli deve essere
anche esistita un’officina di un artefice, perché là
ho trovato
scorie di fonderia, frammenti di lingotti di bronzo,
diversi pesi
ed un frammento di un vaso di pietra, l’unico conosciuto in tutta
la Sicilia,
fatto da una pietra probabilmente importata e che mostra un
ornamento tipico per il periodo stentinelliano del neolitico.
Visto che in quell’epoca e anche più tardi l’arte della
lavorazione delle pietre era sconosciuta nella Sicilia, si può
concludere che soltanto un artigiano immigrato possa esserne il
produttore.
L’acropoli era provvista di
due mura di cinta costruite da blocchi irregolari come il muro che
cingeva tutto l’altipiano.
Sulla cima era una torre, il suo fondamento sussiste ancora.
Quest’acropoli era, durante l’occupazione araba, la residenza di
un nobile gaito perché vi hanno trovato una parte di un’azza
cerimoniale ,
un amuleto d’argento con un testo dell’epoca fatimidica, un
frammento di un vaso prezioso di sicura importazione dall’Egitto
(dunque alcuni anni dopo il 970, l’anno dell’occupazione
dell’Egitto dai Fatimidi della Tunisia), svariati
sigilli che
confermavano una volta l’autenticità delle pergamene, una quantità
di pesi (oncia romano – egiziana, schat, deben, migr e mitqual),
ornamenti dorati per la bardatura dei cavalli e ferrature decorate.
Pare qu’egli fu un nobile di fiducia della corte dei Fatimidi che
regnava su una popolazione di Tunisini esiliati dalla loro patria,
perché la stragrande quantità di vasellame trovata appié
dell’acropoli è uguale a quello che fu rinvenuto negli scavi
eseguiti nella Qal’a dei Benì Hammàd in Tunisia.(Marcais,G., Les
Poteries & Faiences de la Qal’a des Benì Hammàd, Costantine,
1913). In quei tempi furono gli elementi irrequieti deportati
senz’altro nella Sicilia e nell’Andalusia per colonizzare il
paese. Al
versante settentrionale
del monte si trovano molte tombe, probabilmente dei Saraceni, ma
purtroppo senza corredi funebri, eccetto talvolta qualche anello di
ferro. Là fu
scavato l’unico pozzo d’acqua e qui scaturisce anche durante
l’inverno e la primavera una sorgente.
Il lato meridionale, che si
precipita a picco nel vallone sottostante laddove si può vedere le
rovine di due mulini una volta attuati dal fiume Jazzo Vecchio, offre
soltanto alcune tombe
a cremazione probabilmente romane.
17
Tra il III e il V secolo d. C. i patrizi romani preferirono vivere
nelle loro ville di campagna o fattorie, unitamente ai familiari e ai
servi. Per difendersi dalle continue incursioni dei pirati
barbareschi, talvolta costruivano le loro dimore sulle colline più
impervie, cui si poteva accedere mediante stretti viottoli. Sulle
loro cime costruivano roccaforti e castelli che servivano da
ulteriori rifugi per tutti i coloni in caso di aggressioni e assedi.
Così avvenne per la villa romana sul colle della Giudecca, dove
trovarono rifugio gli abitanti della distrutta Heraclea e dei
villaggi sorti lungo la riva del Platani e nelle immediate vicinanze.
Sul lato occidentale della Giudecca sono stati trovati i resti di
una villa romana:
Su una piccola altura,
era una volta una villa romana,
perché ho visto qui la metà di una tavola rotonda fatta da una
pietra bene levigata con un foro nel centro e l’orlo un poco
elevato. Anche di un’altra tavola ho
trovato un frammento ch’è di diorite di colore roseo macchiettato
levigato a tutt’e due i lati. Di più non mancano frammenti di bei
bicchieri di vetro multicolore.
Nella piana sottostante ho
trovato la pietra rotante di basalto di un mulino romano,
spinto una volta dai servi o da un mulo. Appiè del versante
meridionale dell’altura summenzionata era il cimitero
della famiglia romana
che si è ritirata qui verso la fine dell’impero romano, quando il
litorale era già troppo malsicuro per vivere là tranquillamente. Il
padrone si fece erigere un bel monumento
sepolcrale
di marmo bianco
e di schisto
grigio,
oggi distrutto, ma tuttavia restano ancora delle lastre rotte.
Purtroppo l’epitaffio che portò il nome e i titoli del padrone fu
venduto dal contadino e non si sa più chi l’ha comprato.18
Dicono che gli scheletri erano in buon’ordine e non sconvolti, ma
hanno là trovato niente eccetto alcuni chiodi di ferro delle casse
da morto. Pare
che questa famiglia tardo-romana era già della fede cristiana che
non tollerava più i corredi sepolcrali.
Ancora più a sud, su uno sperone, sono delle tombe
incavate nella roccia viva
proprio nell’orlo dell’altipiano – probabilmente
bizantine
perché a fossa come sarcofaghi – ma già violate da tempo
immemorabile. 19
Sui resti di una fattoria romana, probabilmente è stata costruita
l’odierna “casa della Giudecca”, il cui pavimento è
fatto con ciottoli fluviali disposti a mosaico. Osservando bene si
nota che l’attuale costruzione è il risultato di diversi
rifacimenti e restauri, che sono stati eseguiti nel corso dei secoli.
Si può tra l’altro ipotizzare che sia servita, come luogo di
raccoglimento e di preghiera per la comunità berbero-giudaica che
abitava sulla collina.
L’archeologa M. S. Rizzo ha eseguito un’indagine di superficie
sulla collina della Giudecca ed ha evidenziato che:
L’abitato medievale
sorgeva sulla parte più alta del rilevo, tra q. 230 e 300 ca., dove
la pendenza è più moderata; in quest’aria infatti sono visibili i
resti di alcune strutture murarie, e si rinvengono, con notevole
densità, frammenti di ceramica. A q. 260 ca. corre un muro, lungo
m.250 ca., con direzione SE-NO, del quale è visibile soltanto un
filare; a q. 280 ca. si trovano invece i resti di una costruzione
rettangolare (m 7 x 15 ca.), probabilmente moderna, realizzata con
blocchi della pietra locale legati con malta. Il tetto è a doppio
spiovente, l’apertura principale si trova sul lato Nord.
Un muro di fortificazione
circonda la terrazza più alta sui lati Sud, Ovest e Nord mentre il
fianco orientale, tagliato naturalmente a strapiombo,è privo di
opere difensive. Il muro che racchiude un’area rettangolare di ca.
40x100 m. è costruito in parte con pietre appena sbozzate, in parte,
soprattutto in corrispondenza degli spigoli, con blocchi squadrati.
Con la stessa tecnica è costruito una sorta di torrione
quadrangolare, che cinge uno spuntone di roccia affiorante
all’interno della cinta muraria. La struttura, m 20x10 ca., si
impianta sulla roccia, che è in parte livellata per accoglierla. …
Il materiale rinvenuto sul
sito è costituito da frammenti di tegole e di contenitori di
ceramica
invetriata e non;
sono stati inoltre raccolti due frammenti di macine
di pietra lavica
ed un’altra, integra, del diametro di 40 cm e dello spessore di 25
è stata lasciata sul posto.20
Ferdinando Maurici (accompagnato da Franco Mangiapane, Lorenzo
Gurreri e Franco Mascarella), durante un’escursione sulla collina
ha trovato due
Frammenti di mqabriyas
che attestano chiaramente la presenza musulmana su Monte della
Giudecca.
Entrambi i frammenti sono stati rinvenuti ai piedi della
fortificazione che difende la terrazza sommitale del monte. L'area è
interessata dal parziale crollo delle mura della fortificazione
stessa. Non è necessario ipotizzare la presenza di un'area
cimiteriale proprio alla base della fortezza e quindi nel mezzo
dell’area insediativa. Si può pensare piuttosto che i due
frammenti siano stati riutilizzati nella fortezza come materiale da
ricostruzione e che siano caduti in seguito al parziale crollo delle
muraglie stesse. Tutto il sito, inoltre, è stato oggetto di grandi
lavori di spietramento per ricavare superficie coltivabile o per
pascolo. Non si può dunque escludere che i due frammenti siano stati
gettati insieme ad altro materiale ai piedi della cima proprio
durante uno spietramento. Come ultima ipotesi, si potrebbe pensare
anche che i due frammenti di stele siano stati trovati da tombaroli e
quindi scartati per il loro peso ed ingombro o per il loro scarso
valore commerciale. In tutti i casi è ben difficile che i due
frammenti, all’atto del ritrovamento, si trovassero in giacitura
primaria.
Il primo frammento di pietra
tombale è in calcare, pesa 6 Kg., è lungo nel punto massimo 27 cm.,
largo nel punto massimo alla base 14 cm., alto 22,5 cm. Si tratta
della parte terminale di una mqabriya. La stele appartiene ad una
tipologia ben nota e diffusa, oltre che in Sicilia, in Africa del
Nord ed in Spagna. Presenta plinto prismatico rettangolare a tre
gradini h. rispettivamente cm.6,5, cm.3,8, cm. 3,8 – larghezza
cm.14, cm.10, cm.7). La stele vera e propria è anch’essa di forma
prismatica rettangolare e, come normale, è considerevolmente più
alta dei singoli settori del plinto (h. cm. 10, larga cm. 4). Non si
riscontrano tracce di iscrizioni incise o di decorazione di alcun
tipo né sui bordi del plinto né sulle facce della stele. Ad
esclusione di questo non secondario particolare, questo primo
frammento di mqabriya da monte della Giudecca è molto simile ad una
delle mqabriyas con iscrizione rinvenute a Iato.
Il secondo frammento è
scolpito in un tufo relativamente compatto ma molto più leggero (il
frammento pesa 3 Kg.) e friabile del calcare. Le dimensioni sono
piuttosto simili a quelle del primo frammento: lung. Max cm.26,5,
larg. Max cm. 15,5. Il pezzo si presenta in condizione di
conservazione molto peggiori rispetto al primo frammento, ma ciò non
crea difficoltà particolari per la ricostruzione ideale della
tipologia. Anche in questo caso sembra trattarsi della parte
terminale del mqabriya. Anche qui il plinto si divide in tre sezioni
con progressivo restringimento. Ed anche in questo caso la stele vera
e propria sembrerebbe avere avuto sezione rettangolare. Assente anche
nel secondo frammento qualsiasi traccia di epigrafe. La datazione dei
due reperti non può essere precisata, anche se
sul loro carattere islamico non vi sono dubbi. Se l’identificazione
di Monte della Giudecca con l’abitato fortificato di Platano
ricordato dalle fonti è esatta, si deve ipotizzare per il sito una
continuità di vita pressoché ininterrotta dall’epoca bizantina
sino alla definitiva cacciata dei musulmani sotto il regno di
Federico II.
Le due mqabriyas, vista anche l’estrema semplicità, devono
necessariamente collocarsi, almeno per il momento, ad una lunga fase
compresa fra il X e la prima metà del XIII secolo. 21
Recentemente, con il progetto “Dialogos”, un gruppo di archeologi e studenti di archeologia dei paesi del Mediterraneo, guidati dal prof. Maurizio Paoletti, ha eseguito delle ricognizioni sul colle della Giudecca e dintorni.
Secondo il predetto studioso, ad un primo esame si evidenzia l’esistenza sul colle della Giudecca di un insediamento medioevale di notevole interesse, testimoniato sia dall’esistenza delle mura di una fortezza, sia dall’abbondanza di ceramica verde, risalente al XII e XIII secolo. Detta fortezza probabilmente fu distrutta in seguito alla lotta di Federico II contro gli arabi.
Il gruppo di lavoro del progetto Dialogos, formato dagli archeologi Stefano Genovesi, Luca Zambito, Donatella Novellis e Maria Rocco, i quali guidavano un gruppo di studenti universitari, ha messo in luce le basi e una parte delle mura di cinta del castello:
L’area del castello
occupa il pianoro sommitale che si innalza sul versante
sud-orientale… Le mura di fortificazione seguono perfettamente la
morfologia del pendio – in alcune parti molto tormentata – e si
adattano ad essa; cingono tutti i lati del monte, eccetto il versante
sud-orientale, fortificato soltanto lungo l’estremità meridionale,
che per il tratto restante risulta già ben protetto naturalmente da
un suggestivo e profondo strapiombo roccioso affacciato sul fosso
dello Jazzo Vecchio. La tecnica di realizzazione dell’apparato
murario sembra piuttosto omogenea sull’intero perimetro delle mura,
realizzate con pietre in calcare di medie e grandi dimensioni di
forma assai irregolare… Le pietre angolari presentano in alcuni
casi una squadratura più accurata, sebbene anch’esse non rechino
segni di una rifinitura superficiale. I conci sono legati da una
malta – in alcuni punti particolarmente consistente – di colore
opaco e tendente al grigiastro.22
Il predetto gruppo, che ho avuto il piacere di
accompagnare, ha raccolto e classificato parecchi frammenti di
ceramica invetriata monocroma verde e ceramica comune da conserva,
che datano l’insediamento al periodo medioevale.
La maggior parte dei frr. di
Monte della Giudecca trova una collocazione cronologica compresa a
cavallo tra i secoli XII e XIII, periodo in cui si verifica la
progressiva perdita di ruolo egemonico della Sicilia nell’ambito
dei commerci a favore di centri come Genova e Pisa.23
Sul pianoro sono state rinvenute abitazioni diroccate, probabili
dimore di una comunità arabo-giudaica, stabilitasi sulla collina
dopo la distruzione della fortezza. Del resto il toponimo Judeca o
Giudecca spesso indica il luogo abitato o frequentato da gente
d’origine ebraica. A comprovare la presenza di abitanti di lingua
ebraica nell’università di Siculiana (di cui faceva parte
la Judica o Giudecca) c’è il fonte battesimale della chiesa
del Santissimo Crocefisso:
La vasca battesimale sopra
cui si innalza quello che era il cielo della “vara” del
Crocifisso, sorretto da quattro colonne corinzie, è ricavata da un
antico sarcofago marmoreo con iscrizione ebraica dedicata, nell’anno
1475, a Samuele,
giovane figlio del rabbino Giona Sibeon;
lo stesso sarcofago presenta due stemmi in bassorilievo: a destra
quello della reale casa di Castiglia in Sicilia, inquartato in croce
di S. Andrea con quattro pali in capo e alla punta e aquile sveve ai
fianchi, a sinistra quello della reale casa di Castiglia in Sicilia,
con castello sormontato da tre torri in primo, leone in quarto e pali
in secondo e terzo. La presenza degli stemmi reali e la simmetrica
sobrietà delle linee di incisione depongono per un personaggio molto
importante e facoltoso, forse un medico ebreo, che aveva avuto un
intimo rapporto con la famiglia reale, e non solo ciò fa del pezzo
marmoreo qualcosa di unico ma testimonierebbe
anche l’esistenza, in quegli anni, di una poco nota comunità
ebraica a Siculiana
che poteva godere di particolari privilegi.24
La poco nota comunità ebraica della baronia di Siculiana,
probabilmente, era quella della Giudecca del feudo Monforte o
Platani.
Sul versante nord-ovest sono visibili delle tombe scavate nella
roccia:
A ridosso di uno sperone
roccioso con visibilità sul fiume Platani, è stata individuata
un’area cimiteriale. Si tratta di una necropoli sub divo composta
da una decina di tombe visibili sul terreno, ricavate direttamente
nel gesso affiorante (tratto tipico della configurazione geologica
della collina), completamente vuote, in quanto già violate in
antico. Le tombe a fossa, a pianta irregolarmente rettangolare o
trapezoidale, orientate E-O, presentavano in origine una copertura di
lastre di arenaria, come si deduce dai frr. di lastre sparsi sul
terreno circostante.25
Ruderi sul pianoro della
collina della Giudecca.
CAPITOLO IV
GLI INSEDIAMENTI BERBERI: RAHAL – AL- GIDÌDI (JADÌI O
GADIDAH), JUDICA O GIUDECCA.
La conquista araba della Sicilia aveva messo in moto un flusso
d’immigrazione considerevole. Le campagne del Vallo di Mazara
furono invase da coloni Arabo-berberi, provenienti dalle varie parti
dell’Africa. Ad attirarli furono la fertilità dei campi, che erano
loro assegnati, e la possibilità di poter professare liberamente la
propria religione. Al seguito degli Arabi-berberi c’erano anche
Ebrei, che ritrovando altri correligionari, installatisi in Sicilia,
da tempi remoti, e sfruttando la tolleranza della società
siculo-araba, costituirono delle piccole comunità, che con
discrezione professavano la religione ebraica. Una di queste
comunità si era formata nel territorio di Platano, che dai tempi
della colonizzazione romana era stata sede d’immigrazione di nuclei
ebraici.
Secondo lo storico Michele Amari:
Dalla tradizione, al par che
dal linguaggio, parecchie tribù berbere sembrano senza dubbio
d’origine semitica; ovvero, se tutta la gente berbera il sia,
quelle sembran passate in Occidente in tempi men remoti, talché il
dialetto loro abbia ritenuto molto più delle voci e forme
semitiche.26
Dopo la sconfitta definitiva degli Arabi e la conseguente
distruzione del castello di Platano, gli abitanti Siculo-berberi,
d’origine semitica, continuarono ad abitare sul colle Platanos.
Federico II e i suoi eredi favorirono la colonizzazione delle terre
circostanti, mediante l’immigrazione di famiglie ebree d’origine
sveva, e chiamarono il nuovo insediamento Rahal - al-Gidìdi e le
terre dei dintorni costituirono il feudo Judica o Giudecca.
Dal 1303 in poi il feudo di Monforte o Platani era sotto la
giurisdizione della chiesa metropolitana di Palermo, che lo dava in
concessione ai baroni delle università vicine:
Dopo la restituzione
dei suoi feudi (che gli erano stati tolti in seguito alla guerra del
vespro dal milite Manfredi di Aspello) nell’anno 1303, la chiesa
metropolitana di Palermo continuò a mantenerli sotto la sua
signoria, ma indi a poco li concesse a vari signori sotto un annuo
censo. Uno di loro fu Gilberto Isfar et Corilles al quale furono
concessi dalla chiesa il tenimento di Monforte o Iblatanus e parte
del feudo Ingastone
nell’anno 1422 sotto un annuo censo. Sulla fine del XVI secolo
Filippo III, re di Spagna, incaricò
Biagio Isfar et Corilles
coi feudi Alvano, Judeca, Cannamela, Ingastone, Maniscalco, Piana
Vizzì a condizione di pagare all’arcivescovo di Palermo onze
cento annue,
cominciando dal 1612. Quello ch’è certo si è che ai tempi in cui
Tommaso Fazello viaggiava per la Sicilia per raccogliere gli elementi
della sua storia, nel primo cinquantennio del XVI secolo, di Platano
si era perduto anche il nome, pur avanzando di essa mirabili ruine. I
suoi abitanti, sbandati forse per comodità o per tornaconto lungo le
fertili terre bagnate dal Platani, saranno stati raccolti dal Barone
Blasco Isfar et Corilles, Signore di Siculiana, che fondò al 22
marzo 1612 nella contrada Ingastone, una parte della quale si
chiamava una volta “Terra
Maniscalco”,
il nuovo comune di Cattolica, perché “casalia sunt deserta.27
La comunità ebraica fece parte dell’Universitas civium di
Girgenti fino a quando il feudo Monforte o Platani nel 1422 fu ceduto
a Gilberto de Isfar, barone di Siculiana. Da questo momento la Judica
e i suoi abitanti fecero parte integrante della baronia di Siculiana.
Gli Ebrei della Giudecca, sotto le varie dominazioni, vissero
indisturbati e si dedicarono all’agricoltura, alla pastorizia, al
commercio di sale, stoffe e animali da soma, di cui erano grandi
esperti. Nel periodo intercorso tra la fine della dominazione araba e
la prima metà del XV secolo, gli Ebrei vissero:
Come servi, sudditi e
vassalli del re di Sicilia… ed erano, insieme agli altri abitanti
del luogo, membri della universitas civium e come tali sottostavano
al governo amministrativo e politico delle rispettive comunità
urbane. Gli ebrei, che risiedevano invece nelle terre baronali, erano
soggetti, come gli altri abitanti delle stesse terre, alla
giurisdizione feudale dei rispettivi signori. La differenza fra
l’ebreo e il non ebreo consisteva nel fatto che il non ebreo, ossia
il cristiano, condizioni personali e sociali permettendo, poteva
rivestire cariche pubbliche elettive e burocratiche, mentre l’ebreo
(l’ebreo osservante della legge mosaica, non l’ebreo convertito
cristiano) ne era per definizione impedito.28
Questo stato di cose durò fino a che un movimento antisemita
creatosi in Spagna, sfruttando l’ideologia cristiana che intendeva
cristianizzare tutto il mondo conosciuto, non cominciò a
perseguitare gli Ebrei che non si volevano convertire al
Cristianesimo. Il re, per evitare gravi disordini fra cittadini di
diversa religione e per fare affermare quella cattolica su tutte le
altre, emanò un editto, che doveva convincere gli Ebrei a farsi
cristiani.
Il 31 marzo 1492 fu emanato
da Ferdinando ed Isabella l’editto di espulsione per tutti gli
Ebrei e le varie giudecche esistenti nell’isola furono oggetto di
persecuzione e spesso vennero accusati di propagare la peste.29
L’antisemitismo in Sicilia e, quindi, nel Vallo di Mazara non
fu così implacabile come in Spagna, si cercò in vari modi di
convertire le comunità ebraiche alla religione cattolica e spesso si
ottennero buoni risultati.
Gli abitanti della Giudecca, il cui numero probabilmente era limitato
ad alcune centinaia di persone, per evitare l’esilio, preferirono
accettare formalmente la religione cattolica, divennero pubblicamente
cristiani (conversi) e privatamente continuarono a vivere,
secondo le loro tradizioni, nell’isolamento della loro Judica.
Comunemente il termine “ebreo” era riferito a chi praticava
ufficialmente la religione ebraica; erano chiamati “marrani o
conversi” coloro i quali si convertivano forzatamente o per
convenienza alla religione cattolica.
I signori Isfar, baroni di Siculiana e possessori del feudo di
Monforte o Platani, si servivano dei conversi e dei marrani
per coltivare i loro feudi e tolleravano il fatto che la comunità
abitante sulla Giudecca continuava a praticare la religione e le
usanze dei loro padri. Dal canto loro gli Ebrei, divenuti conversi,
cercarono di non suscitare odio nei loro confronti, continuando a
vivere secondo le tradizioni ebraiche solo in privato.
L’atteggiamento dei nuovi
cristiani verso la “nuova fede religiosa” è così sintetizzato
da Pedro della Caballeria, uomo di Stato e giurista di fama, che così
rispose ad un letterato ebreo che gli rimproverava di essersi
battezzato, lui così esperto nella legge ebraica: “Imbecille con
la Torà avrei potuto essere, al massimo, un rabbino. Adesso, grazie
al piccolo appeso (Gesù) sono gratificato di ogni sorta di onori…
chi mi impedisce di digiunare a Kippur e di osservare le vostre
feste? 30
L’editto d’espulsione del 1492 non riuscì ad eliminare
l’ebraismo esistente in Sicilia, ma accelerò il processo di
conversione, più o meno sincera, alla religione cattolica, tanto a
cuore alla monarchia spagnola:
L’ebraismo rimasto
in Sicilia dopo l’espulsione è stato finora un universo ignorato.
Secondo l’opinione prevalente, ultimato l’esodo, si concluse con
esso anche la storia ebraica isolana. Noi siamo giunti ad una
conclusione diversa. Quella storia non si è interrotta nel 1492, ma
è proseguita ancora per molti decenni, e per spegnerla
effettivamente ed in modo definitivo, prima re Ferdinando e la regina
Isabella, poi il loro nipote Carlo V e il pronipote Filippo II,
affidarono al Santo Officio della Inquisizione il compito di portare
a termine quell’opera. La storia ebraica siciliana fu così spenta
dopo oltre 60 anni di persecuzione inquisitoriale. 31
La comunità giudaica, che viveva sul colle della Giudecca, nei
momenti di pericolo trovava rifugio nel casale di Monforte (oggi
Principotto), facente parte del feudo di Platani, che era stato
ceduto a Gilberto de Isfar con atto del notaio Urbano de Sinibaldo
del 10 dicembre 1433 (riportato nel capitolo precedente).
Gilberto de Isfar nel gennaio del 1458 aveva ricevuto in enfiteusi
per venticinque onze il mero e misto impero sul territorio di
Monforte, dove fece costruire una torre (nella località Capo Bianco)
a salvaguardia dei coloni dei dintorni, soggetti alle razzie dei
pirati barbareschi. Il predetto territorio fu aggregato alla baronia
di Siculiana. A Gilberto Isfar successe il figlio Giovanni, che nel
1473 vendette con patto di riscatto la baronia di Siculiana e,
conseguentemente, il feudo di Platani ossia Monforte a Gilberto
Valguarnera. Questa vendita suscitò il risentimento dell’arcivescovo
di Palermo Giovanni di Paternò, il quale denunciò Giovanni Isfar
per violazione del patto di enfiteusi. La lite tra un ricorso e
l’altro si trascinò fino a quando non fu deciso che il feudo
doveva ritornare nelle mani dell’arcivescovo, che lo concesse a
Guglielmo Valguarnera. Gli Isfar fecero opposizione alla sentenza, ma
non riuscirono a tornare in possesso del feudo Monforte e della
baronia di Siculiana, fino a quando, mediante una generosa donazione,
non convinsero l’arcivescovo di Palermo Ottaviano che la loro
richiesta era legittima e giusta. Annullata la prima sentenza e
accordatisi con i rivali-parenti, gli Isfar ebbero una nuova
concessione enfiteutica e pagarono un canone maggiore di quello che
avevano pagato i Valguarnera.
Nel 1525 fu investito della Baronia di Siculiana e del feudo Monforte
o Platani Giovanni Isfar, cui seguì il figlio Francesco nel 1542.
Francesco nel 1551 donò la baronia al figlio Giovanni, che, al
compimento della maggiore età, nel 1553 ottenne l’investitura.
Nel 1561 Blasco Isfar et Corilles, in seguito alla morte del fratello
Giovanni senza eredi, ereditò la baronia di Siculiana e del feudo di
Monforte (proc. Invest. N.2318, 6°, n.1516). Negli anni che
seguirono fondò ai piedi del casale di Monforte un villaggio
chiamato Ingastone, dove nel corso degli anni andarono ad abitare i
coloni del feudo. Questo villaggio ebbe un incremento repentino della
popolazione che, secondo il Miceli, fu dovuto alla scomparsa del
precedente sito abitativo del feudo di Platani o Monforte, cioè a
dire della “Judeca”.
1
F. Maurici, Articolo pubblicato sul giornale Momenti di Ribera.
2
G. Caruselli, Sulla storia della Sicilia antica, 59-60.
3
Cfr. F. Maurici, Castelli medievali in Sicilia, 210-211.
4
G. Otto, Cattolica Eraclea ed i suoi dintorni, 11.
5
Idrisi, Il libro di Ruggero, 91.
6
Il miglio arabo misurava 1481 metri e le distanze da un luogo
all’altro erano indicate approssimativamente, in base al tracciato
delle strade.
7
F. Maurici, Castelli medioevali in Sicilia, 210-211.
8
Diodoro IV, 78, 2.
9
Cfr. G. Spoto, Cattolica Eraclea ed il suo territorio, 55-57.
10
A. Cutaia, L’itinerario arabo-normanno Sutera Agrigento nel libro
di Idrisi, 53-55.
11
T. Fazzello, Storia di Sciacca anno 1550; G. Spoto, 56.
12
F. Maurici, Castelli medioevali in Sicilia, 211.
13
Secondo Giuseppe Castronovo fino al 1922 i contadini che lavoravano
sul colle bevevano l’acqua dei pozzi. Analoga affermazione ci ha
fatto il signor Leonardo Baronello, che conosce bene il colle per
averci lavorato da bambino fino ai giorni nostri.
14
Cfr. G. Picone, Memorie storiche agrigentine,145; A. Cutaia,
L’itinerario arabo-normanno Sutera Agrigento nel libro di Idrisi
106.
15
G. Caruselli, 64.
16
E. De Miro, Eraclea Minoa, in G. Otto, Cattolica Eraclea ed i suoi
dintorni, 2.
17
G. Otto, ibidem, 2-3.
18
Acquistata e donata al museo archeologico di Palermo dal barone
Spoto.
19
G. Otto, Cattolica Eraclea ed i suoi dintorni, 3.
20
M. S. Rizzo, L’insediamento Medievale nella valle del Platani,
53-55.
21
F. Maurici, articolo citato.
22
M. Paoletti, Monte della Giudecca, 9.
23
Ibidem, 32.
24
P. Fiorentino, Siculiana Racconta, 74.
25
M. Paoletti, Monte della Giudecca, 39-40.
26
M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, 229,230.
27
G. Otto, Cattolica Eraclea e i suoi dintorni,13.
28
F. Renda, La fine del Giudaismo siciliano,44.
29
T. Lo Iacono, Le stanze di Isacco, 25-26.
30
T. Lo Iacono, Le stanze di Isacco, 34.
31
F. Renda, La fine del Giudaismo siciliano, 11.