I giochi di una volta
I
GIOCHI
Il gioco è sempre
stato fondamentale per ogni individuo, non solo perché appartiene ad un periodo
molto importante della vita: l’infanzia, ma anche perché è attraverso il gioco
che il ragazzo sviluppa la propria creatività, la fantasia e impara a vivere
con gli altri. Si può giocare anche da soli o con amici immaginari, ma stare in
compagnia permette di fare tanti giochi collettivi, di vivere le stesse
emozioni, di misurarsi con gli altri, socializzare e conoscere meglio le
proprie potenzialità.
Giochi e
giocattoli dei bambini greci e romani
Tutti i bambini,
fin dai tempi più remoti, sono stati attratti da giochi di vario tipo. Sulla scorta delle opere scritte e dei
bassorilievi, che ancora oggi si possono ammirare, esaminiamo brevemente alcuni
particolari giochi, molto amati dai bambini greci e romani ed in parte
praticati ancor oggi.
I bambini greci avevano giocattoli semplici e poco
significativi. Nei loro giochi utilizzavano palle di stoffa piene di segatura e
di stracci, trottole di legno, cavallini o altri animaletti d’argilla,
carrettini di legno, altalene, tamburelli. Per i più piccini c’erano i sonagli.
Le bambine avevano bambole di terracotta o di cera, che, prima delle nozze,
dedicavano ad Artemide, dea della fanciullezza. I giochi preferiti erano:
- Il
gioco della conchiglia (nel
recente passato A 'cchiapparé). I fanciulli dividevano il campo a metà, tracciando per terra una linea.
Una parte del campo era chiamata esterna del guscio, l’altra interna. Un
bambino, posto sulla linea, lanciava in aria una conchiglia. Secondo la faccia
della conchiglia che appariva, i fanciulli, che stavano nella corrispondente
parte del campo, rincorrevano gli altri che, voltate le spalle, fuggivano e
cercavano di non farsi prendere. Quello dei fuggitivi, preso per primo, era
apostrofato come asino e doveva posizionarsi sulla linea, gettare la conchiglia,
gridando notte o giorno,
secondo come cadeva la conchiglia,
la cui parte interna era spalmata di pece ed assomigliava alla notte. Una
testimonianza di questo gioco la riscontriamo nel Fedro di Platone.
- Il gioco dello scalpello. Si
giocava con una schiera numerosa, divisa in due gruppi uguali. I ragazzi tracciavano con uno scalpello una
linea nel mezzo del campo, sulla quale collocavano la palla, e altre due linee
dietro le schiere, come limite del campo. La squadra designata dalla sorte
lanciava per prima la palla contro gli altri, che dovevano afferrarla e
respingerla. Vinceva la squadra che riusciva a buttarla oltre la linea
tracciata dietro.
- Il gioco della pentola. Un
fanciullo, apostrofato come pentola, se
ne stava accoccolato in mezzo ai compagni. Gli altri gli giravano intorno, lo
tiravano per i capelli, lo stuzzicavano e lo percuotevano, finché la vittima
non riusciva ad afferrare uno dei persecutori e gli cedeva il posto.
- Il gioco dei
cinque sassolini (nel recente passato A li cincu rucchiceddri). In
questo gioco si adoperavano cinque pietruzze o dadi o sassolini. Un bambino li
lanciava verso l’alto e cercava di riprenderli sul dorso della mano. Quelli che
cadevano a terra erano ripresi dal giocatore con le dita. Era un gioco più da
bambine che da fanciulli.
- Il gioco della mosca di bronzo
(simile all’odierno Moscacieca). Un fanciullo con gli occhi bendati andava in
giro dicendo: “Io vado alla caccia della mosca di bronzo”. Gli altri
rispondevano:”Tu la cerchi, tu la cerchi, ma non la prenderai” e intanto lo
battevano con fruste di scorza di papiro, finché uno di loro non era catturato
ed il gioco ricominciava.
Come
giocavano i bambini romani
Fin dai tempi antichi, nel mondo
romano i fanciulli sapevano divertirsi con gli oggetti più semplici, quelli che
erano alla portata di tutti: erano sufficienti dei pezzi di legno o di metallo,
dei sassi, della sabbia e un po’ di fantasia per improvvisare i giochi più piacevoli
ed entusiasmanti. Naturalmente, anche i ragazzi romani delle famiglie più
ricche avevano giocattoli di vario tipo, alcuni dei quali sono in uso ancora
oggi. Nei vicoli, nei cortili, nelle piazzette c’erano fanciulli che facevano
girare la trottola (turbo) con lo spago o con la frusta, si divertivano
a cavalcare una lunga canna (arando longa), trascinavano sul selciato un
rudimentale carrettino (plastellum). Quando il carretto era piuttosto
grande, il gioco diventava molto più divertente: i ragazzi vi salivano sopra e
si facevano trainare da un animale, che poteva essere un cane, una capra o una
pecora. Nel caso in cui mancava l’animale, si rimediava facilmente mettendo le
briglie ad un compagno compiacente.
I giochi più diffusi tra i ragazzi romani erano:
- Il gioco della palla (paganica o
pila). I ragazzi usavano una
palla formata da un involucro di cuoio imbottito di piume o stracci, oppure
costituita da un involucro di cuoio contenente una vescica di animale gonfiata
a forma di polmoni (fallis). Giocavano con le mani e non usavano i
piedi, ma, presumibilmente, qualche calcio ci doveva scappare. Il gioco si
svolgeva nei prati di periferia, nelle piazzette e per le strade, disturbando,
proprio come avviene oggi, passanti, rivenditori e massaie.
- Il gioco di testa e nave (capita et navia) era chiamato così perché spesso le monete
romane avevano da un lato una testa e dall’altro una nave. Anche questo gioco
ricorda molto da vicino quello praticato ancor oggi con le monete di metallo e
che ha come nome a testa e littra.
- Il gioco del cerchio (orbis o
trochus) era uno dei giochi
più praticati. Venivano adoperati cerchi di grandi dimensioni, che si guidavano
mediante un bastoncino dalla punta ricurva, oppure cerchi ornati di anelli che
durante la corsa si urtavano l’un l’altro, producendo un acuto tintinnio che,
sicuramente, piaceva molto ai ragazzi ed infastidiva i grandi. Inoltre,
venivano anche usate piccole ruote che si facevano girare con un bastoncino.
- Il gioco del pari e dispari si svolgeva così: un bambino teneva chiusi nel pugno dei sassolini o
delle noci, mentre un altro doveva indovinare se erano in numero pari o
dispari.
- Il gioco delle
noci (nucibus ludere) che si svolgeva nel seguente modo: ciascun
ragazzo poneva a terra un mucchietto di quattro noci (tre sotto e una sopra),
quindi a turno i giocatori, lanciando un’altra noce da una distanza stabilita,
cercavano di colpire ed abbattere il mucchietto. Le noci smosse erano vinte dal
ragazzo che le aveva colpite. Questo gioco con delle varianti è giunto sino a
noi ed era molto praticato a Cattolica Eraclea fino ad alcuni decenni fa.
- Il gioco della fune. I
ragazzi utilizzavano una specie di
acchiappino con la corda. Due ragazzi, ciascuno dei quali teneva in mano uno
dei capi di una lunga fune, dovevano afferrarne altri due, per poi legarli ben
bene come salami. Gli inseguiti cercavano, naturalmente, di sfuggire alla
cattura e intanto si davano da fare colpendo i compagni con una piccola verga.
Ai giochi anzidetti se ne possono
aggiungere altri di origine greca come: l’altalena, l’aquilone, la mosca di bronzo, il gioco della
pentola, che
certamente i fanciulli
romani avranno imparato dai numerosi schiavi orientali, ai quali, come ben sappiamo, molte famiglie solevano
affidare la cura dei bambini. Alcuni di questi giochi, sotto forme e modi
diversi, sono praticati ancor oggi.
I giochi di una volta
Certamente i giochi, praticati dai nostri nonni e
genitori, erano diversi da quelli dei ragazzi di oggi. Una volta i fanciulli
trascorrevano la maggior parte del loro tempo insieme ai coetanei per le strade
del paese, che, anche se spesso erano malandate e fangose, si prestavano più di
quelle di oggi alle attività ludiche, perché, non esistendo le macchine o
essendo molto poche, erano certamente più sicure. Inoltre, a quei tempi non
c’erano i videogiochi e l’uso della televisione, quando c’era, veniva ridotto a
qualche ora giornaliera. I giochi più diffusi, oggi completamente scomparsi e
di cui è doveroso conservarne il ricordo perché rappresentano un momento
significativo della nostra cultura e delle nostre radici, erano i seguenti:
- A li mazzoli era un gioco di gruppo,
praticato con due asticciole di legno di dimensioni diverse: una più grande mazza e una più piccola mazzola, appuntita alle due estremità. Il ragazzo
che conduceva il gioco, da un punto precedentemente fissato chiamato poiu determinato da una pietra, colpiva la mazzola con la mazza, cercando di mandarla più lontano possibile ed evitando che gli altri
ragazzi la prendessero al volo, nel qual caso, chi riusciva a prenderla,
gridava: “Vinticincu e mazzoli” e
lo sostituiva nel condurre il
gioco, guadagnando venticinque punti. Se la mazzola toccava terra, il
giocatore che la prendeva, dopo aver fatto dei passi avanti, la lanciava
cercando di farla arrivare vicina al poiu, possibilmente ad una distanza inferiore
alla lunghezza della mazza. Il mazzeri,
così veniva chiamato chi conduceva
il gioco, doveva cercare di fermare la mazzola, assestandole un
colpo di mazza mentre era ancora nell’aria o in movimento.
Se la mazzola cadeva ad una distanza dal poiu inferiore alla lunghezza della mazza, il giocatore, che
l’aveva lanciato, sostituiva il mazzeri.
Nel caso in cui la mazzola cadeva a terra lontana dal poiu, il mazzeri aveva a
disposizione tre possibilità per allontanarla, colpendola sulla punta con la mazza la faceva rimbalzare e, assestandole un forte colpo, la mandava il più
lontano possibile dal poiu. Ultimati i tre tiri, il mazzeri chiedeva un punteggio corrispondente alla distanza della mazzola dal poiu, misurata con la mazza (un punto equivaleva alla lunghezza della mazza). Se gli avversari
ritenevano errata la richiesta di punteggio, misuravano la distanza con il rischio
di attribuire di più (cioè il punteggio reale) o il proposito di conquistare il
posto del mazzeri. Alla fine vinceva il ragazzo che
raggiungeva per primo il punteggio prefissato.
- A li nuci o a li mennuli era
un gioco molto praticato sia dai ragazzi che dagli adulti nelle strade e in
casa, soprattutto nei mesi che precedevano e seguivano la fiera del Rosario,
perché era il periodo in cui c’era più disponibilità di noci e di mandorle,
un tempo abbondanti nel nostro territorio. Era un gioco di gruppo, cui ciascuno
partecipava contribuendo con delle noci o mandorle, che venivano disposte a
terra in linea orizzontale. I partecipanti lanciavano la loro mastra (noce
pesante e dalla forma quasi rotonda) oppure l’aranciteddru (guscio di
mandorla riempito di piombo ed avvolto in uno strato di cera) verso lo scià (una
pietra); chi si avvicinava di più al predetto segnale, mettendo il piede dietro
di esso, tirava per primo verso le noci e faceva proprie tutte quelle che
colpiva (a chiddri chi si fa), oppure, se si giocava ‘n punta di
tutti e si colpiva una delle due estremità se le aggiudicava tutte. Nel
caso in cui colpiva una o più noci, poste nel mezzo, se le prendeva unitamente
a quelle che restavano dispari. Il gioco continuava fino alla fine di tutte le
noci, che venivano colpite prima dallo scià, dopo dal punto dove erano
andate a finire, dopo il primo tiro, le mastre ed infine a carcanasu,
cioè avvicinandosi alle noci e, dopo aver preso la mira, colpendole facendo
venire giù dalla punta del proprio naso la noce mastra o l’aranciteddru.
Nel predetto periodo festivo, che cadeva nella prima e seconda settimana di
ottobre, il gioco delle noci veniva praticato all’interno delle case tra
familiari e parenti.
- A li cciappuli era un gioco
che si praticava con dei pezzi di ferro arrotondati o quadrati, muniti di un
buco al centro (cciappuli) e con un pezzo di legno o ferro di forma
cilindrica chiamato canneddru, su cui si disponevano delle monetine,
bottoni o altre piccole cose. Da una distanza prefissata, secondo un ordine
conquistato con alcuni tiri preliminari, i giocatori lanciavano la propria cciappula
verso il canneddru. Vinceva
chi riusciva a far cadere le monetine o i bottoni vicino alla propria cciappula
o dentro ad un piccolo cerchio o turruné,
che era stato disegnato attorno al canneddru.
- A li bocci era un gioco che
si praticava con otto palle di legno, quattro bianche e quattro nere, ed un
pallino. Aveva, a volte, le stesse regole che valevano per il gioco delle cciappuli,
oppure quattro giocatori si dividevano in due squadre e lanciavano le proprie
bocce cercando di avvicinarsi quanto più possibile al pallino. Vinceva la
squadra che riusciva a realizzare per prima 11 o 21 punti.
- A circuliari era un gioco
molto antico che si praticava individualmente o a gruppo. Il nome deriva
dall’oggetto usato: lu circulu, cioè una ruota di bicicletta, privata
dei raggi, del copertone e della camera d’aria. Con un filo di ferro dalla
punta ritorta, chiamato ‘ncagliu, si guidava il cerchio e lo si faceva
girare, mantenendolo in equilibrio. Molti bambini si divertivano girando per le
vie del paese in questo modo e facendo delle gare di velocità o di resistenza
su dei tragitti prefissati.
- A li pinni
era un gioco fatto con le piume di volatili: galline, oche, grossi uccelli.
I ragazzi partecipanti si disponevano a forma di croce; il capogioco lanciava
in aria le piume ed ognuno dei partecipanti cercava di afferrarle. Vinceva chi
riusciva a raccogliere più pinni. Legata a questo gioco c’era una
filastrocca: amuninni, amuninni / a jucari a li pinni! A volte, quando i
ragazzi volevano escludere qualcuno di loro, dai giochi che richiedevano
particolare abilità, gli dicevano: “Va’ joca a li pinni”. Ciò stava a
significare che questo gioco non era tenuto in grande considerazione dai
ragazzi, anzi era reputato idoneo per i bambini o le ragazze.
- A gravachiummu era un gioco di gruppo, in
cui i partecipanti si schieravano addossati al muro, mentre uno di loro, il mazzeri,
si sedeva su uno scalino ed un altro, tirato a sorte, si piegava ed appoggiava
la testa sulle gambe del mazzeri, che gli bendava gli occhi con le mani.
Uno del gruppo si avvicinava e saltava sulla schiena del compagno, cercando di
non farsi riconoscere. A questo punto il capogioco chiedeva al compagno che faceva
da cavallo: “Cu è gravachiummu, Pasqua’?[1] L’interrogato
doveva cercare d’indovinare il nome del compagno che gli stava sulla schiena
per liberarsi e cedergli il posto. Se sbagliava, invece, un altro ragazzo si
aggiungeva al primo, fino a quando il malcapitato non indovinava oppure, non
riuscendo a reggere il peso dei compagni, cascava per terra ed era costretto a
rimettersi sotto e a ricominciare il gioco.
- A Niniddru era
un gioco simile al precedente nella disposizione dei ragazzi partecipanti. Dal
gruppo si staccava un ragazzo che, avvicinatosi al compagno piegato, lo colpiva
con il palmo della mano e, cercando di non farsi riconoscere, ritornava nel
gruppo. A questo punto il mazzeri chiedeva: “Cu fu Ninì?” Questi,
avvicinatosi ai compagni addossati al muro, ne indicava uno e, tenendolo a
cavalluccio, lo portava dal capogioco, che gli chiedeva: “A cu porti?” “A
Niniddru”, rispondeva l’altro. Se il ragazzo aveva indovinato, si liberava
e cedeva il posto al compagno. Nel caso in cui non indovinava, il mazzeri
gli ordinava: “Va’ a lassalu ca nunn’è iddru!” e questi doveva riportare il compagno al
proprio posto, tenendolo sempre a cavalluccio. Si caricava sulle spalle un
altro compagno ed il gioco continuava fino a quando non indovinava chi era Niniddru,
che una volta scoperto prendeva il posto del compagno.
- A tri tri, tavula longa o cicireddru era
un gioco di squadra, in cui i partecipanti, divisi in due gruppi, facevano la
conta. I ragazzi della squadra perdente, inclinando il corpo e appoggiando le
mani sulle spalle del compagno, formavano un ponte sul quale quelli della
squadra avversaria dovevano, uno alla volta, saltare, dopo aver pronunciato la
frase: “A tri tri”. Dopo che tutti i componenti della squadra si erano
sistemati sul ponte, i ragazzi, che stavano sotto, cominciavano ad agitarsi,
cercando di far cadere gli avversari. Vinceva la squadra che era riuscita a
rimanere in sella, oppure l’altra se disarcionava o faceva toccare terra con il
piede ad uno degli avversari.
- A li cincu rucchiceddri era un
gioco individuale e l’occorrente consisteva in cinque sassolini (rucchiceddri
o giachi), di forma piatta. Si disponevano a terra i cinque sassolini nella
seguente maniera: quattro in modo da formare un quadrato e uno al centro. Il
primo giocatore ne prendeva uno tra due dita e lo lanciava in aria, cercando di
farlo ricadere sul dorso della mano, quindi si continuava con gli altri
sassolini. Se il giocatore non riusciva a frenare la caduta del sassolino sul
dorso della mano, continuava il gioco un altro ragazzo.
-A li dubbii (indovinelli) era un
gioco di gruppo, che si svolgeva così: un
ragazzo faceva da capogioco e,
tenendo un’estremità di un fasciacollo
attorcigliato, proponeva ad un altro, che teneva l’altra estremità, chiamato Rumé, di risolvere l’indovinello
proposto. In caso positivo il capogioco esclamava:
“Du’ sordi Rumé cafuddra” ed il
ragazzo era lasciato libero di inseguire i compagni e colpirne almeno uno
dietro le spalle. Succedeva, a volte, che il capogioco gridasse: “Du’
sordi Rumé arriggira” ed il ragazzo si affrettava a raggiungerlo, inseguito
e colpito con le mani dai compagni di gioco. Chi era stato colpito per primo,
era chiamato a risolvere un altro indovinello. Nel caso, invece, che Rumé non riusciva a risolvere
l’indovinello, doveva sottoporsi alla pena, consistente nel ricevere un colpo
di fasciacollo da ciascuno dei
compagni di gioco, oppure ad una penitenza stabilita dal capogioco.
- A battimuru era un gioco praticato
con le monete. Ogni ragazzo, dopo aver fatto la conta, batteva sul muro una
moneta e la faceva rimbalzare, cercando di farla arrivare vicino alle monete
dei compagni. Chi riusciva nel predetto tentativo e si avvicinava ad una
lunghezza inferiore alla lispa (un filo di paglia della lunghezza di
circa 20-25 centimetri o quanto il palmo della mano dei giocatori) vinceva la
moneta del compagno. Il gioco continuava fino a quando uno dei giocatori non
abbandonava per aver perso tutte le monetine.
- A la foia o a la guerra era un
gioco molto pericoloso, praticato principalmente negli anni 1930-1950. I
ragazzi costituivano delle bande di quartiere, che periodicamente si
scontravano e si combattevano con lancio di sassi ed altri oggetti (foia),
che di solito terminava quando qualcuno veniva colpito e ferito alla testa. Gli
scontri e i combattimenti, a volte, si svolgevano imitando le guerre con spade
di legno e bastoni, oppure a tricciati, cioè con fruste di corda o peli
di coda di cavallo (tricci).
- A battuliari o a testa e littra si faceva con le monetine. Chi lanciava più
vicino al muro la moneta o vinceva la conta, aveva il diritto di prendere le
monete, nasconderle e battulialli (rotearle e farle tintinnare) nelle
mani, poi pronunciare testa o littra e buttare per aria le monete. Si vincevano
quelle cadute secondo la previsione. Il gioco continuava con il secondo ragazzo
e così via, fino ad indovinare la faccia di tutte le monete.
- A zicchettu o turruné era un gioco
individuale in cui i ragazzi tracciavano sul terreno un cerchio (turruné)
diviso in quattro parti da due
righe incrociate (simi), poi tiravano la loro monetina o bottone (pumettu)
verso il muro o una pietra chiamata scià. Chi si avvicinava di
più, aveva diritto a lanciare tutte le monetine cercando di farle
entrare nel cerchio, non riuscendoci, aveva la possibilità di effettuare un
tiro, strofinando due dita (il pollice e il medio) e spingendo la monetina
dentro il cerchio. Si tirava un colpo ciascuno, seguendo l’ordine conquistato
prima. Ciascuno vinceva le monetine che riusciva a fare entrare nel cerchio. Se
la monetina si fermava sulla sima era considerata fuori dal turruné.
- A la baddra era un gioco che
prendeva il nome dall’oggetto usato cioè la baddra (trottola) di legno
resistente, di solito di faggio, munita di un pizzu d’azzaru, consistente
in un chiodo robusto e appuntito nelle estremità, che si conficcava al centro
della trottola e sporgeva fuori di tre o quattro centimetri. L’innesto del pizzu
necessitava di cure particolari per la buona riuscita dell’impresa. I ragazzi
si recavano dal fabbro per fare praticare al pizzu la cosiddetta azzariatura
(veniva arroventato e battuto sopra l’incudine) e, quindi, inserito nel
buco della trottola, dopo avervi infilato delle muschiddri (mosche morte
ed essiccate). A seconda della riuscita, la baddra era considerata appizza
e resta se girava senza saltellare, tirichitanchi se invece andava
saltellando, oppure finula o muschiddra se girava silenziosamente e
velocemente. I diversi modi di comportamento della trottola servivano, a volte,
ad indicare il carattere o il comportamento più o meno deciso delle persone (appizza e resta = uomo fermo e deciso; tirichitanchi = volubile e poco
affidabile; finula = elegante e
piacevole). Le trottole, quando riuscivano tirichitanchi, venivano ammastrate,
limando e risistemando per bene ‘u pizzu. I partecipanti al gioco
avvolgevano intorno al chiodo e alla trottolina la lazzata (un filo di
spago chiamato rumaneddru) e, quindi, la lanciavano verso terra, tenendo
tra le dita l’estremità della lazzata, la cui parte finale era munita di
un gruppu (nodo). La trottolina raggiungeva il suolo e si metteva a
girare più o meno velocemente a seconda se era lanciata a la ‘n sutta (in
maniera leggera per non provocare danni) oppure a la ‘n capu (con più
forza e per scalfire le altre trottole). Si tracciava un cerchio sul terreno di
gioco (di solito era in terra battuta), all’interno del quale, dopo aver fatto
la conta, il giocatore perdente poneva la propria trottola, che gli altri
giocatori, uno per volta, dovevano colpire con la propria. Se il partecipante
al gioco non la colpiva, doveva prendere in mano la propria trottola mentre
girava, oppure avvicinarla con lo spago teso fra le mani e far toccare le due baddre. Il primo dei giocatori che non riusciva in
questa operazione, prendeva il posto del compagno, che così, con un sospiro di
sollievo, poteva liberare la propria trottola ed iniziare a colpire, tentando
di spaccare o scheggiare (scardari) quella degli altri. Oltre alle
trottoline venivano usate anche quelle più grandi: li baddruna e, quando
si colpiva con essi, per i malcapitati erano dolori, perché spesso la baddra
colpita andava in pezzi.
I giochi
che stanno per scomparire
Per i ragazzi,
che vivono nei piccoli paesi come il nostro, è facile ritrovarsi per strada e
organizzare giochi vari. Tuttavia, se li paragoniamo a quelli praticati dai
ragazzi fino ad alcuni decenni fa, possiamo costatare che parecchi sono
completamente scomparsi, mentre altri vengono svolti solo saltuariamente,
perché sostituiti dal gioco del calcio e da altri svaghi, rappresentati dalle
sale gioco e dai videogiochi del computer di casa. Questi svaghi, ormai diffusi
anche nei piccoli centri, assorbono, insieme ai soldi, parecchie ore libere dei
ragazzi.
Analizziamo alcuni giochi che, seppure in modo sporadico,
ancor oggi, vengono praticati dai nostri ragazzi.
- A li quattro cantuneri è un gioco cui
partecipano cinque ragazzi, i quali, dopo aver fatto la conta, prendono posto
nella seguente maniera: i quattro sorteggiati ai rispettivi angoli di un
incrocio (cantunera), il quinto si pone al centro della strada e cerca
di conquistare uno dei quattro canti, approfittando del momento in cui i
compagni sono obbligati a scambiarsi il posto. Il tutto avviene di corsa e
riesce bene in questo gioco chi è molto veloce.
- A ‘cchiapparé è un gioco di gruppo,
anch’esso basato sulla corsa, in cui uno dei partecipanti, dopo aver contato a
dieci a dieci fino a cento, rincorre i compagni fino a quando ne cattura uno.
Quest’ultimo prende il posto del primo e il gioco ricomincia e continua fino a
quando i ragazzi esauriscono le proprie energie .
- A mela è un gioco praticato sia dai maschi
che dalle femmine. Per svolgerlo occorre una palla. Dopo aver fatto la conta, i
partecipanti si sistemano all’interno di uno spazio delimitato da una linea o
con confini naturali o immaginari. Due giocatori, rimasti fuori, devono colpire
quelli che stanno dentro e che cercano di evitare i colpi saltando o
spostandosi velocemente. Chi viene toccato dalla palla, esce dal gioco. Se
l’ultimo giocatore rimasto in campo riesce ad evitare i colpi per dieci volte
consecutive, dà la possibilità a tutti i compagni esclusi di rientrare nel
gioco. Se ciò non si verifica, i primi due colpiti vanno sotto, cioè
prendono posto fuori dello spazio e si riprende. Durante il gioco chi riesce a prendere con le
mani la palla al volo, senza essere sfiorato nel corpo, accumula uno o più
punti (le mele). A seconda di quante volte ciò si è verificato, ha la
possibilità di rimanere in campo dopo essere stato colpito, oppure di far
rientrare i compagni in rapporto al numero delle mele in suo possesso.
- A ‘mmucciaré è un gioco di gruppo, molto
praticato sia dai maschi che dalle femmine. Dopo aver fatto la conta, chi esce
per primo s’appoggia ad un muro e nasconde gli occhi con un braccio, mentre a
voce alta conta fino a cento o ad un numero prestabilito. Gli altri ragazzi in
questo lasso di tempo si nascondono. Il primo ragazzo, dopo aver pronunciato la
seguente formula: “Cu cc’è cc’è, cu ‘un c’è nenti!”, comincia a cercare
d’individuare i nascondigli dei compagni. Quando scopre qualcuno, ne deve
pronunciare il nome, premettendo la formula, probabilmente di origine greca, esa
e, correndo fino a toccare il muro,
urlare: “Abbisatu Tiziu”. La ricerca continua fino a quando tutti gli
altri sono stati scoperti e in questo caso il primo ragazzo avvistato va sotto
e il gioco ricomincia. Chi riesce a raggiungere il muro senza essere visto o
prima del compagno che l’ha intravisto, pronunciando la parola esa, si libera;
se riesce a toccare il muro senza essere visto pronunciando la formula : “Esa
libera pi tutti”, libera i compagni.
Quando si avvista un compagno, bisogna pronunciarne l’esatto nome e chi sbaglia
viene preso in giro dai partecipanti, che esultano dandogli del coppula,
ed è costretto a ricominciare il gioco rimanendo sotto.
- Colore, colore è un gioco di
gruppo, in cui, dopo aver fatto la conta, il ragazzo designato dà il segnale
d’inizio, pronunciando le parole: “Colore, colore” e nominandone uno.
Tutti i partecipanti, inseguiti da chi ha iniziato il gioco, corrono alla
ricerca del colore indicato e devono toccare l’oggetto che lo contiene.
L’inseguitore cerca di catturarne qualcuno, prima che tutti riescano a
raggiungere la meta. Riuscendovi, il ragazzo preso va sotto e il gioco
ricomincia.
- A li pupi o a sciusciari (soffiare)
è un gioco praticato principalmente dai maschi, che prende il nome
dall’occorrente: li pupi, un tempo raffigurazioni di carte da gioco
siciliane in miniatura ed in seguito sostituite con le figurine di personaggi
dei fumetti, di animali e di giocatori di calcio. I partecipanti dispongono le
figurine, secondo una quantità prestabilita, una sull’altra. Dopo aver fatto la
conta, il prescelto soffia per primo e si appropria di tutte quelle che riesce
a far capovolgere. Quelle che rimangono, vengono rimesse a posto e, quindi, la
mano passa ad un altro ragazzo.
- All’elastico o celu terra è un gioco
praticato quasi esclusivamente dalle ragazze. L’occorrente consiste in un
elastico della lunghezza all’incirca di un metro e mezzo o due. È un gioco di
gruppo che si può praticare singolarmente oppure in coppia. Due delle
partecipanti al gioco tengono l’elastico teso con il loro corpo, spostandolo
gradualmente dai piedi fino ad arrivare all’altezza massima (celu terra),
che si ottiene tenendo l’elastico con le mani alzate il più possibile. La
prescelta dà inizio al gioco eseguendo dei saltelli, che diventano sempre più
difficili man mano che l’altezza dell’elastico aumenta. Mentre salta pronuncia
le seguenti filastrocche e parole: “Manituba questo messo nero”, “Coca
cola”, “Mortadella”, “Bingò” e la quinta “Milanese”. Queste parole
fantasiose vengono pronunciate sillabando, mentre si eseguono i diversi
saltelli e si va avanti nel gioco. Vince chi riesce a superare tutte le
difficoltà. Nel caso in cui si gioca in coppia, la compagna più brava,
chiamata liberante, può giocare
al posto dell’altra, permettendole così, superate le difficoltà maggiori, di
proseguire nel gioco.
- Alle belle statuine è un gioco di gruppo,
praticato dalle bambine. Le partecipanti si dispongono alla rinfusa, mentre la
capogruppo, rivolgendo loro le spalle, pronuncia la seguente filastrocca: “Alle
belle statuine / siete pronte signorine?” Le bambine rispondono: “Sì, a
che cosa? ” La capogruppo dà
l’ordine e le bambine cominciano a mimare l’azione scelta. A questo punto, la
capogruppo si gira e, dopo aver verificato e toccato ciascuna delle bambine, ne
sceglie una che sarà la nuova capogruppo.
- A ‘rrobba palla è un gioco di gruppo
basato soprattutto sulla velocità. L’occorrente è un pallone . I partecipanti,
divisi in due squadre, devono cercare di conservare il più a lungo possibile il
pallone, movendosi velocemente e passandolo ad uno dei compagni. Gli avversari
cercheranno di ostacolare i passaggi e rubare il pallone, per continuare il
gioco.
- A popò o a lu campanaru è un gioco molto
diffuso, praticato soprattutto dalle bambine. L’occorrente consiste in una giaca
(sasso piatto o pezzo di ceramica) e in un campo da gioco costituito da un
rettangolo sormontato in un’estremità da un semicerchio, disegnato a terra con
un gessetto e diviso in nove caselle numerate, quattro quadrate, quattro
triangolari e l’ultima semicircolare. Le partecipanti devono a turno,
saltellando su un piede, buttare la giaca dentro la prima casella, raccoglierla, fare tutto il percorso del popò
o campanaru, uscire e ricominciare con la casella seguente. Conquistata
anche l’ultima casella, il percorso viene rifatto ripartendo dalla nona. La
ragazza che, strada facendo, poggia il
piede a terra, oppure tocca una delle linee di demarcazione delle caselle con
la giaca o con il piede, perde il diritto di proseguire e passa la mano alla
seconda giocatrice. Vince chi è riuscita a completare il tragitto senza aver
commesso errori.